Recensione: Behind the Mask

Di Davide Pontani - 26 Giugno 2016 - 15:16
Behind the Mask
Band: Fireleaf
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2016
Nazione:
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65

I tedeschi Fireleaf nascono da un’idea del chitarrista Ralf Stoney, già noto tra gli appassionati di heavy/power tedesco per aver militato di recente negli storici Stormwitch. Nel febbraio del 2015, conclusa la parentesi con il suddetto gruppo, Ralf decide di reclutare l’ex compagno di band Micha Kasper alla batteria, il bassista Micha Vetter, Aki Reissmann come secondo chitarrista e Bastian Rose alla voce, completando così la formazione che darà alle stampe questo “Behind the Mask”.

Va messo subito in chiaro che il genere proposto dal gruppo non è accostabile al classico power metal teutonico in stile Helloween, Blind Guardian, Grave Digger e compagnia. Piuttosto quello proposto dai Fireleaf è un power metal moderno, roccioso e robusto, dalle tinte oscure, che viaggia praticamente sempre su tempi medi e flirta tanto con il thrash quanto con l’heavy classico. Insomma come avrete capito non c’è spazio per doppia cassa, velocità folli, virtuosismi e melodie zuccherose. Per questi motivi è più congruo accostare i Fireleaf a gruppi come Brainstorm o Mystic Prophecy, anche se, come vedremo, sono evidenti anche influenze di power americano.

Il punto forte è indubbiamente il cantato di Bastian Rose, dotato di potenza e versatilità e capace di alternare all’occorrenza ruvidezza e melodia. Un’ interpretazione a volte teatrale, altre volte più graffiante, ma sempre adeguata al contesto senza risultare mai forzata. Purtroppo si tratta dell’unico aspetto veramente interessante che emerge dalla proposta musicale del quintetto tedesco perché nel complesso il disco non esalta, risultando poco incisivo e privo del giusto mordente. Non un disco brutto o mal suonato, sia chiaro, ma sprovvisto di un songwriting ispirato e di pezzi memorabili che invoglino l’ascoltatore a ripetere l’ascolto.

“Bloody Tears”, che ha il compito di rompere gli indugi, si colloca stilisticamente tra il power/thrash roccioso degli Iced Earth e l’heavy potente dei Primal Fear. Il brano si lascia ascoltare, è ben suonato, ma risulta anonimo e privo di spunti interessanti. Non convince neanche la cadenzata “Monsterman”, forse il pezzo più debole del disco, tutta giocata su stop ‘n’ go e riff singhiozzanti, che non avrebbe avuto speranze neanche se fosse uscita nella seconda metà degli anni 90, quando il nu metal aveva contaminato quasi tutti i generi con influenze di questo tipo. A salvarsi è solo la prova vocale di Bastian, che spazia senza alcuna difficoltà dal growl ad acuti alla Kiske, esibendo una notevole estensione vocale. Dopo due false partenze, finalmente il disco ingrana con “Faceless”, che risulta tutto sommato fresca ed ispirata. La drammaticità e la tensione che si respirano nella strofa, forte di un cantato particolarmente espressivo, vengono spazzate via da un ritornello trascinante e ben riuscito. “Forgiven” è una tetra semiballad, caratterizzata da una melodia di pianoforte che dà un tocco gotico al brano. Purtroppo, anche in questo caso, la mancanza di spunti interessanti fa si che il brano stanchi presto. Con “Death Throes” si viaggia finalmente su velocità più sostenute ed infatti il risultato è un brano riuscito e coinvolgente. Buono il lavoro delle chitarre di stampo maideniano, ma è ancora una volta Bastian a dare spettacolo grazie alla sua versatilità. Impossibile in questo caso non notare la somiglianza di certi passaggi vocali con il cantato enfatico di Warrel Dane. Il fantasma dei Nevermore si affaccia anche nella successiva “The Quest”, la quale risulta strutturalmente molto simile alla sopracitata “Faceless”. Infatti ad una partenza segnata da riff pesanti come macigni fa da contraltare un  ritornello più leggero, dalle tinte hard rock. Convince decisamente di più l’accoppiata “Isolation” e “Tales of Terror”, due pezzi compatti e robusti ma al contempo carichi di melodie accattivanti. A seguire la noiosa “King of Madness” ci ricorda che il disco vive di sconcertanti alti e bassi. Si arriva così alla conclusiva ed inutilmente prolissa title track, ennesima occasione sprecata dal gruppo, il quale le prova tutte per dare un senso ai quasi nove minuti di un pezzo che in più di un passaggio sa di brodo allungato. Ed è un peccato perché l’apertura melodica del ritornello non è affatto da buttare via, è il resto del brano a risultare privo di uno straccio di idea valida.

Si conclude così un disco del quale non si sentiva il bisogno, ma che lascia intravedere le capacità di un gruppo che, come si suol dire a scuola di certi alunni capaci ma svogliati, ha le potenzialità ma non si applica. Nella speranza che in futuro i Fireleaf si sforzino un po’ di più nella ricerca della giusta ispirazione e di idee valide, per ora il giudizio non può che essere appena sopra la sufficienza.

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