Recensione: Beneath Grow Lights Thou Shalt Rise

Di Daniele D'Adamo - 23 Novembre 2013 - 0:01
Beneath Grow Lights Thou Shalt Rise
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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56

 

Nati nel 2006 per mano dei fratelli Phil (membro dei Municipal Waste) e Josh Hall, amanti sconfinati del brutal death metal floridiano, i Cannabis Corpse, per non prendersi troppo sul serio, evitano di mischiarsi con i consueti temi inneggianti al gore, allo splatter e all’horror per dedicarsi, appunto, all’argomento marijuana.

Una scelta che non trova riscontro nella loro musica, per nulla faceta anzi dannatamente rigida e seria. “Beneath Grow Lights Thou Shalt Rise”, l’album in esame, è uscito come autoproduzione nel 2011 ma, quest’anno, è stato ufficializzato dalla Season Of Mist che ne ha suggellato l’alta qualità manifatturiera. Un lavoro che segue l’uscita di due EP (“Blunted At Birth”, 2006; “The Weeding”, 2009), un singolo apripista (“Blame It On Bud”, 2011) e un altro full-length, “Tube Of The Resinated” (2008). Il tutto, in attesa del nuovo lavoro previsto per l’anno venturo.

Forti delle lezioni in materia impartite da gente del calibro di Death, Cannibal Corpse, Morbid Angel, Deicide e Obituary, i Cannabis Corpse sciorinano un brutal ‘evidentemente’ perfetto. ‘Evidentemente’, poiché oltre a essere tecnicamente irreprensibili, Andy “Weedgrinder” Horn e i suoi compagni non dimenticano nemmeno un dettaglio che, assieme a tanti altri, danno vita a un genere così complesso. A cominciare dal growling stentoreo e cavernoso di Horn, che a volte si trasforma in un asfittico inhale, per passare dallo spaventoso guitarwork della coppia Hall/Poulos, esteso in tutte le direzioni sino all’orizzonte per tessere un’intricatissima ragnatela di riff assai elaborati. Riff secchi, asciutti, costruiti in maniera impeccabile; veri esempi da tramandare ai posteri in materia di brutal death metal. Soprattutto quando è evidente lo sforzo ideativo per svolgere dei segmenti armonici chiari nonché matematicamente precisi. Superlativa, come si conviene al genere, la sezione ritmica; costantemente impegnata a non ripetere mai il medesimo pattern per tentare di movimentare quanto più sia umanamente possibile l’avanzata del carro armato a stelle e strisce; non disdegnando il ricorso alla furia dei blast-beats o agli assalti in doppia cassa.

Tutto questo conformismo nei confronti del death nato in Florida, però, non fa così bene, al disco. Seppur scevro da difetti, lo stile dei Cannabis Corpse è poco incisivo. Troppo simile a tanti altri per sviscerare una personalità che, probabilmente, non ha. Soprattutto, troppo derivativo da quello dei Death. Così, fra una song e l’altra, il platter scorre via abbastanza anonimamente; intrappolato nei suoi tecnicismi e nei suoi freddi arzigogoli compositivi. La sequenza dei brani è sufficientemente lineare sia come (alto) livello di qualità esecutiva, sia come contenuti artistici; ma davvero si fa fatica ad arrivare alla fine del platter. Non è certo l’assoluta mancanza di melodia, a portare verso il tedio: il brutal è un genere che fa di questa caratteristica uno dei suoi pilastri portanti. Piuttosto, si tratta di un approccio totalmente scolastico al songwriting, tale da far percepire i singoli episodi come cervellotici e ‘forzati’, senza cioè quella sensazione di libertà e immediatezza che, perlomeno a parere di chi scrive, non deve mai mancare in un’opera di metal. Anche in quelle più tentacolari.     

Alla fine, “Beneath Grow Lights Thou Shalt Rise” rappresenta un episodio non significativo della gloriosa storia del death floridiano. Passata l’immediata curiosità per il nome scelto dall’ensemble della Virginia (questo sì, azzeccato), tutto finisce rapidamente nel dimenticatoio.   

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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