Recensione: Big Rocks

Di Simone Volponi - 2 Aprile 2017 - 8:00
Big Rocks
Band: Krokus
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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70

Da quanti anni sono in giro gli svizzeri Krokus? Se facciamo i conti partendo dal lontano 1974, anno della fondazione in quel di Soletta, ci accorgiamo che di tempo ne è passato parecchio, ma i Krokus non hanno mai smesso di spingere il pedale su un hard rock viscerale e diretto, fregandosene delle mode che nel corso di quattro decadi si sono alternate sul mercato.
Rock duro e crudo, semplice nell’aspetto e forse un tantino ripetitivo, sempre sulla scia della principale band di riferimento: gli AC\DC. E quando Angus Young e soci si sono ritrovati a dover sostituire (temporaneamente?) Brian Johnson per concludere il giro delle attività live relative all’ultimo tour, il singer dei Krokus Marc Storace, maltese classe ‘51, si è subito proposto e reso disponibile, hai visto mai la possibilità di realizzare il sogno di una vita…
Però la band australiana ha preferito puntare su una più prestigiosa e redditizia collaborazione convocando Mister Axl Rose, e niente, Storace se ne è tornato zitto zitto dai suoi compagni storici. Cosa fare allora, se non riprendere a pestare un po’ di hard rock, a testa bassa finché ce n’è?

Ecco quindi la scelta dei Krokus di presentarsi sul mercato con un disco di cover, il primo della carriera. Un’operazione di solito adoperata dalle band come scappatoia contrattuale, e che spesso partorisce lavori svogliati, frettolosi e scialbi.
Big Rocks, questo il titolo scelto, esprime invece la giusta dose di energia, e soprattutto gioca sul sicuro, proponendo una tracklist piena di grandi classici che tutti, compreso chi non ha dimestichezza con il rock, hanno ascoltato almeno una volta. Pochi esperimenti, dunque, laddove altri gruppi cercano invece la sorpresa andando a pescare e coverizzare brani lontani dal proprio genere o sconosciuti ai più.
Il riff inconfondibile di N.I.B. dei Black Sabbath funge da incipit, ed è un peccato che i Krokus abbiano deciso di proporne solo 1:16. La prima vera traccia proposta diventa dunque Tie Your Mother Down dei Queen, resa in una versione più ruvida e graffiante, e non poteva essere diversamente con la voce lasciva di Storace. La band è calda e sembra divertirsi, la formazione a tre chitarre (Fernando von Arb, Mark Kohler, Mandy Meyer) ridisegna di assoli doppi la struttura originale per una buona riuscita generale.
Segue l’immortale My Generation, targata The Who, aderente alla versione storica, con tanto di singhiozzi da parte di Storace e una buona dose di energia. Forse la carica sovversiva espressa da Roger Daltrey e i suoi compari casinisti non può essere ritrovata da dei rocker più che sessantenni come i Krokus, ma parliamo di altri tempi, e l’omaggio va apprezzato nella resa finale.
Molto bella Wild Thing, dei The Troggs, risuonata in modo ignorante e sboccacciato, mentre la celeberrima The House Of The Rising Sun degli Animals perde necessariamente la sua atmosfera elegiaca. I Krokus la rivestono di cuoio e borchie, non rinunciano ai loro riffoni scuola AC\DC e piazzano degli assoli di ottima fattura. Poca magia e tanto sudore, ci sta.
Funziona anche Rockin’ In The Free World sequestrata per l’ennesima volta al buon Neil Young. Di versioni di questo pezzo ne esistono a bizzeffe, e quella dei Krokus non aggiunge niente perché il valore immaginifico sta già tutto nell’originale, stampato nella storia, e gli svizzeri la suonano fedeli e onesti, nulla di più. La sbarazzina Gimme Some Lovin’ ( Spencer Davis Group) rimane tale anche nelle mani di Storace e compagni, mentre attira di più Whole Lotta Love degli Zeppelin, che calza bene con lo stile stradaiolo della band. Anche qui non ci sono grosse sorprese, forse nel timore di sconsacrarne le note immortali i Krokus si limitano al compitino attenendosi fedelmente all’originale, ma l’ascolto è comunque piacevole, e in coda c’è un omaggio proprio agli AC\DC (strano non trovare una loro cover all’interno di Big Rocks) con la citazione di Whole Lotta Rosie.

Divertono Summertime Blues, nella veste già immortalata dai The Who miriadi di anni fa, e l’iconica Born To Be Wild degli Steppenwolf (il primo “Heavy metal thunder” di cui si ha memoria) mentre incuriosisce Quinn The Eskimo di Bob Dylan, trasformata in un bluesaccio infame tutto riff che sprizza ormoni a ogni nota.
Per un fan degli Stones, poi, è sempre piacevole riassaporare le note di Jumpin Jack Flash, anche se in questo caso i Krokus sembrano trattenere un po’ le redini e non sprigionano la giusta carica. Anche questo numero viene riproposto tutto sommato con aderenza all’originale, e il mestiere di musicisti così navigati garantisce comunque un livello qualitativo alto.
Big Rocks si chiude con una auto-cover, i Krokus che risuonano loro stessi di qualche anno fa, scegliendo un proprio classico, Backseat Rock N’ Roll. È un guardarsi allo specchio per dirsi “ok, siamo ancora in grado di suonare come un tempo, e forse anche meglio”, e darà lo sprono per il prosieguo della loro carriera, visto che i nonnetti non hanno nessuna intenzione di fermarsi.

Dunque abbiamo una sequenza di grandi classici, interpretati con onestà e mestiere, qualità strumentale e una voce allenata con maratone di sigarette e sollevamenti di bottiglie. Nulla di imprescindibile, questo è certo, ma Big Rocks è un dischetto che intrattiene con del sano rock e a volte può bastare.
Un interludio di qualità, per gli amanti del grande rock che fu, e per i fans della band in attesa del prossimo album di inediti.

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