Recensione: Biogenetic

Di Fabio Vellata - 9 Gennaio 2014 - 18:10
Biogenetic
Band: Montany
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2013
Nazione:
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77

È una storia che arriva da molto lontano quella dei Montany, esperta quanto sconosciuta band olandese, fondata in un primo tempo nel remoto 1989 e da sempre confinata entro gli angusti confini del più oscuro, nascosto ed inaccessibile underground.
Originariamente nato con il nome di Montani (senza la “y” finale), il gruppo di Wassenaar è passato attraverso un mezzo migliaio di cambi di line up, sconvolgimenti di sound, mode, ere, stili ed influenze. E come ovvio, un paio di inevitabili split con successive reunion.
Il risultato derivante è un percorso che – dato il perenne travaglio – potrebbe quasi appartenere alla biografia di qualche realtà storica dell’universo metal, non certo ad un nucleo di artisti dalla produttività esigua e ben lungi dall’essere classificata come seminale.

Nel corso dei quasi quindici anni di carriera sperimentati con il nuovo monicker, ben poche, in effetti, le release discografiche: un demo autoprodotto agli albori del nuovo millennio, un full edito da Limb Music nel corso del 2002, per arrivare – dopo eoni di peregrinazioni – all’uscita di un nuovo long playing proprio sul finire del 2013, realizzato questa volta in modo del tutto autonomo e distribuito in forma indipendente.
Nemmeno i Boston di Tom Scholz e la gestazione millenaria dei loro album, insomma…

Una volta ascoltato per intero il nuovo “Biogenetic”, viene tuttavia da pensare “peccato”…
Peccato perché il quartetto di “tulipani” mostra di avere qualità decisamente interessanti ed un pizzico di follia compositiva del tutto personale, alcune buone idee ed una corroborante freschezza nello “svecchiare” un suono che  – solo all’apparenza ed a beneficio delle categorie –  viene proposto come power metal melodico.
In realtà, sotto una superficie da presunti defenders di vecchio corso, si animano spifferi prog multiformi, avvolgenti aloni gotici, riverberi hard rock e sventagliate di elettronica (quella non orridamente sorniona e commerciale) che si fondono con chitarre importanti ed un invidiabile senso melodico, alla costante ricerca di un “che” di orecchiabile ed accattivante.

Da qui un disco dal profilo curato, attento ai dettagli di una produzione professionale ed alle sfumature di un’immagine volutamente stilosa, concepita per mostrarsi competitiva.
Tutti elementi in ogni modo, destinati a naufragare in assenza di pezzi quanto meno gradevoli, all’interno dei quali dar libero sfogo alla propria creatività ed attraverso cui veicolare la voglia di aprire finalmente una breccia nel mercato che conta.
L’opener “Of Fire And Ice” appare in tal senso sintomatica della dimensione tutt’altro che dozzinale del gruppo olandese: scelta oculata quella di affidare al primo brano del cd una sorta di biglietto da visita di quelle che sono le proprie aspirazioni, affermandosi quale realtà alle prese con il tentativo di rifuggire aride categorie imbalsamate dal tempo e dalla brama di inquadrare entro confini prestabiliti una forma d’arte tanto sfuggente come la musica.
Un po’ power, un po’ gothic. Progressive quanto basta, rock nell’anima, contemporanea nei suoni e quadrata al limite del djent nell’amministrare gli accordi di chitarra.

Tanta carne al fuoco, nulla da dire. Ma con esiti talora davvero degni: innamorarsi di un brano come “Angels Smile” ad esempio, è immediato come contare sino a tre.
Uno-due-tre: Smashing Pumpkins che si mescolano ad atmosfere country, in un contesto hard rock orecchiabile e “radio friendly”, dal taglio assolutamente facile seppure mai grossolano.
Che dire poi, della successiva “Change of Seasons”: nessun omaggio ai Dream Theater (anche se, talora, la voce del bravo Patrik van Maurik qualche reminiscenza alla LaBrie pare cercarla volutamente) quanto piuttosto un assalto personalissimo alla rielaborazione dei canoni melodic metal come avevano pensato i primi Masterplan in origine, prima di smarrire la strada ed inaridirsi.
Un approccio che corrisponde pure alla veloce “Moment Of Faith”, pezzo ispessito da ritmiche power in perfetto equilibrio tra classicità heavy e vitalità del tutto contemporanea.

Un paio di momenti di stanca (la finale “Egypt” appare tutto sommato pesantuccia e poco dinamica, seppure in qualche modo vicina ai grandi Crimson Glory) non ottenebrano la riuscita di un disco che nel suo complesso si presenta piacevolissimo e molto godibile, probabilmente un po’ difficile da reperire ma comunque superiore a quanto realizzato dalle molte band-clone che si lanciano all’avventura senza possedere un briciolo dell’esperienza e dell’abilità del quartetto olandese.

Abili giocolieri, a metà strada tra ottimi innovatori ed esperti volponi intenti ad imbonire con melodie di facile ascolto?
Poco importa, i Montany e “Biogenetic” hanno dalla loro freschezza e vitalità che spiace non vedere supportate da una buona label, probabilmente solo perché non inseribili in un filone dalla resa “certa” e sicura.

E ritorniamo così a chiudere il cerchio con quanto detto in precedenza: peccato, questi Montany, meriterebbero senz’altro una chance…

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