Recensione: Bite Me Dude

Di Fabio Vellata - 23 Gennaio 2011 - 0:00
Bite Me Dude
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Anno: 2010
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79

Autentica macchina da guerra dal vivo, gli alessandrini Lucky Bastardz non avevano colpito come atteso sul cd d’esordio “Hated For Who We Are”, edito nel corso del 2009, sollevando qualche dubbio in merito alla personalità di un gruppo che appariva a tratti un po’ scontato nella proposta e poco “ragionato” nell’esecuzione, potente sulle assi del palco, ma nel complesso acerbo e dalla consistenza ancora tutta da costruire.
Un treno lanciato alla massima velocità senza guidatore, il classico pugile gigantesco e muscolosissimo che mena terrificanti fendenti alla cieca, sperando di far male il più possibile.
Un carro armato, i Lucky Bastardz, rodato per sconfiggere chiunque in sede live, ma purtroppo, sinora un po’ in sofferenza sull’inesorabile terreno della prova discografica, come testimoniato dal primo assaggio di una carriera agli albori.

Loro, spietato nucleo d’assaltatori con gli strumenti in mano, eppure persone di notevole umiltà e consapevolezza nel privato, avevano comunque inteso sin da subito, quanto il cammino intrapreso non sarebbe stato dei più semplici, non soffermandosi sulle prime illusorie ed effimere conferme. Consci dei limiti manifestati, dell’eccessiva stasi di un songwriting con nulla di veramente proprio e di un’identità artistica che anelava un distacco netto da influenze troppo ingombranti, avevano promesso di riprovarci con maggiore calma, per dimostrare quanto la selvaggia furia sonora espressa come un pugno d’acciaio dal vivo, potesse essere supportata da qualcosa di altrettanto buono anche tra i microsolchi di un semplice cd.

Una promessa maturata con orgoglio e passione, assemblata con cura e sfociata in un secondo capitolo discografico – “Bite Me Dude” – che, alla luce degli importanti passi in avanti proposti, lascia realmente intendere volontà e determinazione ferree, oltre ad un genuino talento di pura radice “musicale”, sin qui mantenuto un po’ nascosto.
C’è sempre un po’ lo zio Lemmy a far l’occhiolino qua e là, tra le pieghe dei vari brani. Sussiste ancora l’anima selvaggia di quel rock n’roll assassino ed imbastardito con robusti accenti thrash, a caratterizzare nel profondo l’essenza del commando alessandrino. Ma sono sorprendentemente notevoli, questa volta, anche le sfumature di contorno utilizzate al fine di dar “colore” ad una proposta che, come da copione, salta alla gola come un rottweiler inferocito, ma riesce parimenti a distinguersi per consistenza e – incredibile per il genere – ricchezza di toni.
Obiettivi più nitidi e focalizzati, di certo una lucidità maggiore che, per ora, non osiamo ancora definire maturazione, hanno condotto il quartetto alla stesura di un disco piacevole nella propria esuberanza, dotato di uno spessore artistico molto meno “ignorante” e cialtronesco di quanto desumibile da una semplice e superficiale premessa.

Le avvisaglie sono ben chiare e manifeste. Il richiamo alla battaglia scatenato dall’anthemica “Fire, Beers, Rock n’Roll” promette scorribande a perdifiato sulla falsariga delle migliori sgommate hard n’heavy di scuola Motorhead. L’improvviso materializzarsi di una tematica country a cesellare un incedere molto meno banale e grezzo di quanto previsto, lascia invece un po’ sorpresi, trascinando il brano su tonalità sempre accese ed incandescenti, ma alquanto meno monolitiche, “ingessate” o preconfezionate, a pienissimo vantaggio di una “potenza” che in tal modo appare addirittura accentuata.
Altrove i Luckys mostrano poi ancor più il desiderio di andare “oltre confine”, pennellando l’album con atmosfere dall’inusitata drammaticità tale da farlo apparire, per usare una forzata metafora, come il classico film dalla trama all’apparenza scontata, ma alla prova dei fatti, molto più ricco di contenuti di quanto sospettato.
Il profumo di strade polverose e scenari atipici si fa persistente, talvolta solo sfiorato con qualche accordo di chitarra, in altri momenti sottolineato con maggiore enfasi e forza descrittiva. È il caso senz’altro della significativa coppia “Honour And Blood” e “The Ballad Of Kelly The Killer”, due pezzi che identificano una sensibilità per situazioni permeate da pathos e lirismo che non credevamo accessibili ad un gruppo come quello dei Lucky Bastardz, a dimostrazione di una solidità artistica senz’altro notevole.

Ho personalmente molto gradito infine, la riuscita amalgama tra rockabilly e monolitico hard n’heavy proposta nella scalciante “Crawlin’ Under Snakes”, tra i migliori momenti dell’intero ellepi, senza tralasciare tuttavia il robusto finale rappresentato da una spumeggiante selezione di pezzi veloci e tirati (materiale che dal vivo sarà semplicemente letale), in cui, come già avvenuto nel resto del disco, trova campo fertile per emergere la ragguardevole preparazione tecnica del gruppo, costituito da musicisti decisamente preparati, tra i quali non può non essere menzionato l’ottimo Paco, chitarrista di radice classica, autore di una prestazione davvero sopra le righe.

In buona sostanza, Geppo sbraita sempre invettive assatanate come Lemmy meglio non potrebbe, il gruppo risponde con prontezza macinando note senza pietà, ed il “double kick engine rock n’roll” dei Lucky Bastardz avanza compatto verso la meta.
Questa volta però, la strategia è tracciata con consapevolezza e l’assalto pare studiato al meglio. Il risultato è un album riuscito e di grande “attitudine”, che alimenta la propria potenza dalla capacità di apparire un po’ vario e segna per la bellicosa pattuglia alessandrina un deciso passo in avanti.

Le controindicazioni ed i difetti? Esclusivamente, che il genere non sia di vostro gradimento!

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Tracklist:

01.    Fire, Beers, Rock n’Roll
02.    We Wont Let You Down
03.    Sin City
04.    Tale From The Land Of Mafia
05.    Honour And Blood
06.    The Ballad Of Kelly The Killer
07.    Crawlin’ Under Snakes
08.    Black Hole
09.    Rock This Town
10.    Drunkard
11.    Death All Day, Life All Nite

Line Up:

Geppo – Voce
Paco – Chitarra / Cori
Mr. TNT – Basso
Mark – Batteria
 

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