Recensione: Black Laden Crown

Di Marco Tripodi - 15 Maggio 2017 - 8:00
Black Laden Crown
Band: Danzig
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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55

A 7 anni dal Rosso Sabba della Morte, Glenn Danzig decide di indossare una Cilicio Nero ed entrare in sla a di registrazione con la stessa line-up con cui lo fece un settennato fa. Nel frattempo si è tolto pure qualche scheletro dall’armadio (“Skeletons“, nel 2015, un album di cover registrato sempre con i sodali Tommy Victor e Johnny Kelly). La corona di cui sopra per la verità la fa indossare alla bionda e provocante modella che appare nelle foto promozionali dell’album e che è stata fumettosamente ritratta pure sulla copertina del disco. Veniamo così introdotti alle nuove composizioni che il re del dark sound occulto e rockabilly ha ordito per “Black Laden Crown“, un compendio da manuale del Danzig-pensiero, c’è la firma marchiana e cristallina del suo esecutore, Lord Glenn Allen Anzalone, classe 1955.

Presumo che siano oramai rimasti in pochissimi a non conoscere Danzig e a non aver sentito di striscio perlomeno qualche suo album o qualche cover del suo repertorio imbastita da schiere devote di rocker che nei decenni si sono abbeverati alla fontana di questa icona del metallo tenebroso. Danzig si è ricavato una nicchia tutta sua nel panorama di riferimento e ancora oggi molte delle sue produzioni rimangono pietre miliari, tappe obbligate di un serio percorso di conoscenza rock, se si vuol dire di frequentare e masticare il genere (mi riferisco perlomeno ai primi tre album, periodo ’88 – ’92). Comunque la si pensi su tutto ciò che è venuto a seguire, sin qui Danzig non ha mai pubblicato lavori particolarmente mediocri o scadenti. Certo un “Satans Child” o un “Circle Of Snakes” non valgono “Lucifuge” o “How The Gods Kill“, ma tutto sommato Glenn si è saputo tenere a galla, piazzando sempre qualche discreta zampata nel mucchio. Fa testo a sé la virata acido-industriale di “Blackacidevil” (1996), un album che rappresenta davvero un capitolo a parte nella “continuity” della band e che se non altro può essere preso come un episodio estremamente sperimentale. Lo stesso “Deth Red Saboath” si è rivelato un incoraggiante testimonianza di vitalità, pur trattandosi del nono capitolo della discografia.

Tutto vero, tutto giusto, fino a “Black Laden Crown“, che a mio gusto e giudizio è tra i momenti più stanchi e fiacchi della storia dei Danzig. Nonostante l’estroso Victor alla chitarra, nonostante il carisma trentennale di Danzig, nonostante la carnazza della modella, nonostante un sound rodato e limato in ogni sua sfumatura fino all’inverosimile, la scaletta di “Black Laden Crown” è un brutto passo falso. A tratti l’album è proprio sonnolento e monocorde. L’apertura affidata alla title track ne dà un primo assaggio, una marcia funebre magari fascinosa sulle prime, ma tirata talmente per le lunghe (con quattro note quattre ripetute all’infinito) da provocare la cianosi. “Eyes Ripping Fire“, “Blackness Falls” o la terribilmente insulsa “Pull The Sun” non fanno che dar corpo ai brutti presentimenti di essere incappati in un disco scarsamente ispirato. A conti fatti una sola vera canzone è degna di onorare il monicker in copertina, mi riferisco a “Last Ride“, davvero troppo poco per motivare ad un eventuale acquisto. Una Produzione che penalizza fortemente (quanto inspiegabilmente) la chitarra, un drumming eccessivamente scarno e basico (va bene il primitivismo ritual-tribale ma secondo me Kelly è morto di noia in sala d’incisione) e, quel che è peggio, un Danzig oramai clamorosamente sfiatato, coronano una release che non mette in evidenza un grandissimo stato di forma del gruppo.

Le tracce sembrano assemblate più per dovere che per creatività; il silenzio discografico (inteso come album di inediti) durava forse da troppo tempo per non dover correre ai ripari con una qualche testimonianza in studio. Tuttavia “Black Laden Crown” è davvero una prova modestissima, soprattutto considerando cosa è stato in grado di partorire in carriera Danzig. Non basta il timido ammiccamento (per altro già stra-sentito) di un singolo caruccio come “Devil On Hwy 9“, davvero il minimo sindacale; né “The Witching Hour” o “But A Nightmare” sono sufficienti per salvare la baracca. “Black Laden Crown” è un disco che sarebbe tranquillamente potuto non uscire e nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Anzi peggio, da fan dei Danzig, questa è una brutta sporcatura di un curriculum altrimenti esaltante e ammirevole. Speriamo che Glenn si riprenda presto; sarà difficile recuperare una vocalità al pari col passato (se oramai ha smesso di andare in tour un motivo dovrà pur esserci), ma perlomeno che la verve compositiva possa ritrovare nuova linfa. Altrimenti così va a finir male.

Marco Tripodi

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