Recensione: Black Phlegm

Di Stefano Santamaria - 16 Gennaio 2018 - 0:00
Black Phlegm
Band: Soyuz Bear
Etichetta:
Genere: Doom 
Anno: 2017
Nazione:
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68

Un lungo e cupo rigolo di mestizia cola incessante dalla sorgente dei “Soyuz Bear”, progetto musicale nato in Francia nel 2012. Una sola demo alle spalle, incessante flusso di suoni di matrice doom / sludge per un progetto che a tratti pigia sull’acceleratore con minimalismo, quasi a trasmetterci una primordialità punk. Sfumature, per un’opera che emana miasmi, sguazzando in un fango da cui non riusciamo a distaccarci. 

Black Phlegm’ è il classico lavoro che mesce le cadenze del doom alle più attuali ambientazioni core, così da scaraventarci in una palude di suoni. Eyehategod e Iron Witch sono i più scontati dei paragoni che ci balenano per la mente all’ascolto del disco. Attitudine inflessibile la loro, senza alcun spiraglio per novità o avanguardismo. I pezzi avanzano forti di una cocciutaggine che può tediare, ma che per consistenza e genuinità farà la gioia dei più affezionati a queste sonorità.

Non c’è un episodio dell’album che spicca sugli altri, tutto risuona piuttosto uniforme, senza particolari alti, ma nemmeno bassi. La natura stessa della proposta impone una staticità che, storicamente, resiste all’abbattersi dei più limacciosi pensieri. 

Miseria e perversione ci contaminano, riuscendone però a contemplare la natura, un po’ come se questa ideale figura fosse sporca ormai e si stesse inabissando lentamente, mantenendo però un barlume di coscienza. La lucidità di tutto ciò si può intravedere nelle nebbiose suite che, di volta in volta, soggiacciono all’invadente pertinacia di Black Phlegm. Parliamo di soffuse atmosfere che, come verdognola foschia, riemergono dalla fredda terra. Presenze spiritiche che, erranti, non trovano pace e ci sfiorano, raggelandoci. 

Full-length che non sconvolge di una virgola il panorama musicale ma che, in più punti, riesce a far correre brividi lungo la schiena, turbando. L’onda d’urto è di sicuro impatto, ora vedremo se con il tempo sapranno andare oltre certi cliché, lasciando quell’impronta personale che ad oggi ancora non si riesce a vedere.

Stefano “Thiess” Santamaria

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