Recensione: Black Sheep

Di Roberto Gelmi - 27 Agosto 2014 - 10:06
Black Sheep
Band: Black Sheep
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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I Black Sheep nascono dalle ceneri di due cover band, all’insegna dell’amicizia di alcuni musicisti, provenienti da due gruppi ormai non più attive: il cantante Paolo Veluti, insieme al batterista Claudio Bianchi, ha militato, infatti, nei Powerhouse (tribute band dei Deep Purple) e il chitarrista Luigi Stefli, con il bassista Roberto Bonvini, nei 5150 (tribute band dei Van Halen).  
Insieme, i quattro uniscono la loro comune passione e danno vita nel 2010 ai Black Sheep, nuovo progetto hard rock & metal, dal moniker facilmente memorabile . Nel maggio 2011 subentra, al posto di Roberto Bonvini, Silvia Preda al basso e continuano a proporre dal vivo cover di AC/DC, Mötley Crue, Aerosmith, Black Sabbath, ma anche Van Halen, Guns ‘N’ Roses e Metallica.

Nell’ottobre 2012 i Black Sheep cambiano pelle.
Rimangono solo Paolo Veluti, alla voce e chitarra ritmica, e Luigi Stefli, alla chitarra ritmica e solista; s’interrompono le uscite live e il repertorio di cover è abbandonato, per dare priorità alla composizione di materiale inedito. Lo stile rimane legato al metal e all’hard rock, con riff heavy, ma con un occhio di riguardo all’approccio melodico.

Nella line-up del self-titled di debutto, pubblicato a inizio luglio e, con lungimiranza, scaricabile sul sito della band piacentina (insieme ai testi), troviamo, come turnisti, Stefano Schembari al basso e alla batteria Corrado Bertonazzi.
L’artwork è spiazzante e potrebbe campeggiare in un museo d’arte contemporanea. Una scelta che strizza l’occhio verso una maggiore visibilità del gruppo, che, però, si firma con un logo vecchio stile, che stride con l’arditezza della copertina. Forse i nostri non hanno ancora le idee chiare sulla propria identità sonora?

Ma veniamo alla musica, di questo si deve parlare.
Apre le danze l’ottimo opener “Metal Gate”, vero e proprio invito all’ascolto di un heavy metal old-school, con linee di basso corpose, guitarwork sapido e qualche parte in doppia cassa. Luigi Stefli non si risparmia in fase virtuosistica e il risultato è un intro strumentale più che godibile; peccato, solo, che il tutto duri nemmeno quattro minuti.
La seguente “Bridge of Death”, invece, non graffia più di tanto: la melodia prevale nelle linee vocali, ma Paolo Veluti non convince per personalità, difetto che mina l’intero platter. Il riffing è roccioso al punto giusto, ma il brano prosegue abbastanza anodino e ripetitivo. L’assolo della 6-corde, con un ostinato sapientemente modulato e wah-wah, è troppo effimero per incidere, sebbene lo stile di Stefli sia apprezzabile e denoti un’indubbia padronanza tecnica.

Dopo una coda in doppio pedale, buon cambio d’atmosfera con l’intro acustico e onirico di “I touch the Sky with My Hands”, traccia dal titolo non proprio conciso. L’umbratile crescendo lungo cui si snoda il pezzo, con alcune buone trovate di Bertonazzi, è, però, azzoppato dal cantato monotematico di Veluti, più adatto a un disco progressive rock che metal. I testi cercano di essere poetici, ma risultano un filo stucchevoli («the crimson sunset now it’s turning red / colors fade in a frame of glittering lights»), anche nel refrain («and when my soul will see me turning into dust / my ashes will fall down and become shining stars»). Si avverte la voglia di suonare ricercati e originali, ma non basta il buon break a metà brano, con con parti di batteria “tribali” ed evocative. Il quinto minuto è più appagante, con fischi della 6-corde e buone trovate in fase d’arrangiamento.
Brilla l’intro pianistico in pianissimo di “Nothing but my Anger”, che si sposa con i testi; poi un brusco cambio di direzione e i ritmi si fanno più sostenuti e ricompare la doppia cassa. Il ritornello è da dimenticare, laddove qualche verso, invece, si salva («I cannot escape from the story of my life / so many years have passed and lost forevermore»). Da segnalare alcuni momenti dissonanti sul finire del quarto minuto, che riportano alla mente certi Black Sabbath.
Altro attacco convincente quello di “Shining Stars” (brano più lungo del platter), potente e diretto, che si rivela un pezzo godibile, con un altro assolo mirabile di Stefli e linee vocali meno impervie.
Poco riuscita, invece, la cover di “Lucy in the Sky with Diamonds”. Certo, una scelta azzardata che può suscitare curiosità, ma per un combo che nasce come tribute band di gruppi come Van Halen e Deep Purple, perché non optare per un gran classico di tali band, pur avendo l’accortezza di evitare canzoni troppo rivisitate ( “Perfect Strangers” su tutte)? Detto questo il nuovo arrangiamento del brano dei Beatles non manca di alcune soluzioni interessanti, insieme a un solo chitarristico di tutto riguardo.
Il punto è che la traccia stona nell’identità complessiva del disco, che prosegue con “The Big Sleep”, pezzo dalla partenza maideniana. La chitarra di Stefli pare imbizzarrita, ed è un bene, mentre il basso pulsa a dovere. Strofe coloristiche («I see colors all around me / trying to pull me out from black/but my eyes are turning from / blue to the darkest shade of gray») e un refrain che invita a un risveglio esistenziale: questo non basta, purtroppo, per promuovere il brano, dove anche l’ennesimo buon assolo, ormai suona prevedibile e centellinato.
Lessico contenuto per la conclusiva “This Street”, con una citazione, nell’ultima strofa, che sa di Ozzy Osbourne («but I want no more tears»). I sessanta secondi conclusi dell’album sono tra i momenti migliori del full-length: le ritmiche ricordano i Metallica, l’assolo di chitarra è sapiente e ci sono ottime rullate di batteria. Così dovrebbero suonare più spesso i Black Sheep!

In definitiva un debutto ancora acerbo, con tutte le ingenuità del caso. La produzione è passabile, non stiamo parlando di gruppi heavy italiani affermati come gli storici Dark Quarterer o i più giovani Battle Ram; Paolo Veluti, d’altra parte, non è Rob Rock, ma questo non toglie che si possa far meglio al microfono.
Sono riscontrabili alcune potenzialità per la band (si vedano l’ottimo inizio e finale d’album), ma, nel breve minutaggio del disco, manca una ballad memorabile e la cover dei Beatles risulta fuori luogo.
Diamo tempo al tempo, se i Black Sheep in futuro sapranno emergere in un mercato discografico ipersaturo come quello attuale, daremo loro merito di un’ascesa, che si può compiere solo con la dedizione e la voglia di migliorarsi incessantemente.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

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