Recensione: Blackwaters

Di Daniele D'Adamo - 3 Gennaio 2014 - 23:16
Blackwaters
Band: Terrorway
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2013
Nazione:
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68

 

Ennesima gradita release italiana nel campo del metal estremo, “Blackwaters” è il debut-album dei Terrorway, nati nel 2009 e subito messisi in evidenza con l’EP “Absolute”, nel 2010. Album targato Bakerteam Records, registrato presso i Corpse Factory Studio di Cagliari fra dicembre del 2012 e gennaio 2013, poi missato e masterizzato da Jacob Olsen (Hatesphere, Moonspell, Born From Pain) fra febbraio e marzo 2013.
 
Metal estremo versante death, allineato alle più avanzate sonorità in merito, assai vicine – per comprendere – a quelle sia del cyber, sia del *-core. Sì, poiché sin dalle prime note di “Blackwaters” la sensazione è che i Fear Factory, specificamente nel rifferama e nella ritmica, abbiano avuto un peso notevole nella costruzione del retroterra culturale dei Nostri. Il taglio secco e asciutto della produzione, poi, unitamente all’impostazione vocale di Valentino “Sidh” Casarotti, aggressiva e ‘urlata’, regalano al loro sound quel giusto tocco di modernità che non deve mancare a chi esula dai canoni dell’old school.

Nondimeno, appare piuttosto chiaro un certo aggancio alle sonorità thrashy che hanno fatto parte e fanno parte di band che, a esso, hanno applicato i canoni evolutivi del prog. Band come gli Strapping Young Lad, i Dillinger Escape Plan e i The Haunted, non per caso citate dai Terrorway stessi come fonti d’ispirazione primigenia.  

È inevitabile, allora, che “Blackwaters” abbia tutti i crismi per farsi notare quale esempio di death metal pregno di elementi progressisti e, di conseguenza, povero di dettami classici. Un fatto che, tuttavia, non stravolge quell’impostazione di base che inserisce il combo sardo nell’universo il cui big bang è coinciso con la nascita di Possessed, Morbid Angel e Death. Pur restandone lontani, da essi, decine di anni-luce.

I Terrorway, seppur partendo da coordinate stilistiche certe e ben definite, riescono comunque a giungere alla materializzazione del proprio marchio di fabbrica. La quasi totale assenza di melodia, l’utilizzo moderato di dissonanze e alterazioni, la non-linearità del modus operandi compositivo, l’attenzione – sempre e comunque – a non dar vita a brani esageratamente complicati o addirittura intelligibili; rendono il loro possente, poderoso sound un riuscito equilibrio fra espressività e comprensibilità.  

Detto dello stile e passando alle canzoni, quello che salta subito all’occhio, ma che permane ascoltandole anche parecchie volte, è che siano ancora migliorabili. Il brano conclusivo, “Ruins”, rappresenta probabilmente la migliore forma plasmata dalle mani di quattro musicisti isolani: il coinvolgente movimento altalenante fra momenti elettricamente intensi a istanti semi-acustici, rallentati, emotivamente profondi, è un’evidente prova del potenziale in loro possesso. Potenziale che non riesce a esprimersi con la medesima continuità lungo tutta la durata del disco, perdendosi per strada fra qualche episodio che non lascia segni particolari nella mente.       

La bravura tecnica ed esecutiva dell’ensemble di San Gavino Monreale, insomma, non presta il fianco a molte critiche anzi. “Blackwaters”, infatti, un lavoro di cui, per la qualità della manifattura, i Terrorway possono andare fieri. Non è del tutto arrivata alla maturità, invece, la capacità di scrivere brani aventi lo stesso livello qualitativo; in grado cioè di far compiere quel necessario ‘salto di qualità’ per consentire l’uscita definitiva dalla fase embrionale.       

Daniele “dani66” D’Adamo
 

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