Recensione: Blood Craving Mantras

Di Daniele D'Adamo - 30 Agosto 2019 - 0:02
Blood Craving Mantras
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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Formatisi in Germania soltanto due anni fa, i Temple Of Dread annoverano fra le proprie fila musicisti di tutto rispetto nonché di grande esperienza in materia di metal estremo. Così, non a caso, il debut-album “Blood Craving Mantras”, frutto in primis del lavoro del fondatore / mastermind Markus Bünnemeyer (chitarra e basso), suona come se fosse un adulto fatto e finito.

Lontano, cioè, dai classici difetti di un’Opera Prima che, al contrario, divengono i pregi che caratterizzano un full-length semplice e diretto come un pugno in faccia ma dannatamente feroce e consistente.

Il sound, anzitutto, praticamente esente da critiche nel suo ottimale bilanciamento fra i vari strumenti e l’acida ugola del formidabile vocalist Jens Finger, lontana dalle solite linee sporche in growling; adottando un approccio potente e stentoreo, dello stesso tipo di quello ascoltabile nelle prime band che hanno praticato il death metal.

Death metal senza fronzoli né orpelli, duro, aspro, ruvido, non riconducibile all’old school ma al puro e semplice death metal ortodosso. Quello vero, puro, incontaminato. Non troppo distante dal thrash, cioè, ma molto, molto più rapido e violento. A parte qualche rallentamento dai toni piuttosto cupi (‘Sentenced to Life’), che aprono voragini d’orrore all’interno della mente, i Temple Of Dread viaggiano sparati come un proiettile d’obice, accelerato dalle tremende bordate dei blast-beats generati dal preciso e possente drumming di Jörg Uken.

Definendo in tal modo assai bene uno stile sostanzialmente unico, riconducibile con relativa facilità al combo di Spiekeroog, marchiando pertanto a fuoco “Blood Craving Mantras” con lo stemma sanguinolento del combo medesimo. Cosa che, al contrario, non è sempre rinvenibile in un disco di debutto. Il che rende evidente il fatto che i Temple Of Dread siano, come maturità tecnico/artistico, ben più in là di una formazione alle prime armi. 

In tutto e per tutto. Anche nella costruzione delle song. Sicuramente ligie a rispettare la forma-canzone del rock e quindi distanti da pruderie progressiste e/o evoluzionistiche. No, il trio dell’Ostfriesland pensa relativamente poco per fare tanto, lasciandosi andare con scioltezza e naturalezza, azzeccando anche la sequenza dei brani. Tutti ben costruiti, irreprensibilmente coerenti con lo stile di cui trattasi, piuttosto diversi gli uni dagli altri, sebbene il tiro, la ferina aggressività e l’energia siano sempre le stesse. Praticamente assente la melodia il che, per come sono ideate le tracce, non è certo percepibile come un fastidio.

Accanto a inni anthemici come in ‘Now You Will Die’, ci sono terrificanti sfascia-tutto come la devastante ‘Straying the Battlefields’, retta da un irresistibile riff portante che scoperchierebbe pure il tetto di un carro armato. Anche se non si può parlare di armonie vere e proprie, spesso – come in quest’ultimo pezzo – la solista disegna spesso e volentieri degli acuti ricami, come detto ben poco melodici ma che si amalgamano perfettamente con il resto del sound. E sono proprio gli episodi sfascia-tutto che fanno la differenza fra la noia e il divertimento: ‘Gone But Still Here’ è l’ideale mezzo per far tremare le pareti in virtù di una terrificante potenza di fuoco che, come giù accennato, i Temple Of Dread rilasciano con noncurante disinvoltura, attaccando per davvero e a fondo le barriere difensive dell’orecchio.

“Blood Craving Mantras”, allora, diviene un esempio abbastanza raro di come sia possibile mettere giù un CD senza lambiccarsi troppo a cercare chissà cosa, scatenando la furia degli elementi con scioltezza, fluidità e semplicità. I Temple Of Dread corrono senza inciampi, dritti per la loro strada, verso l’obiettivo che si sono preposti, distruggendolo senza pietà, senza raccattare prigionieri.

Bravi!

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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