Recensione: Blood Of The Hermit [Reissue]

Di Vittorio Sabelli - 11 Giugno 2014 - 12:35
Blood Of The Hermit [Reissue]
Band: Mortualia
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2010
Nazione:
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90

Era il lontano 1984 quando con l’uscita dell’immortale “Bathory”, Ace Börje Forsberg, in arte Quorthon, iniziò la tradizione dell’”one man band”. Da allora la tradizione ha visto personaggi più o meno famosi districarsi con i vari strumenti, sfruttando la nascita del black metal per divenire ancor più famoso con l’ascesa di Varg Vikernes, in arte Burzum. E soprattutto nell’ambiente ‘oscuro’ si sono prodigati in questa scelta ‘esiliare’ band più o meno conosciute, che rispondono (per spaziare geograficamente) al nome di Leviathan, Xashtur in America; a Werewolf (Satanic Warmaster), Nordreich in Europa.

La lista è molto lunga, ma il personaggio che andremo ad affrontare merita molta attenzione, perché, seppur meno conosciuto dei padri fondatori norvegesi, la sua carriera e il suo stile hanno influenzato non poco il black metal della ‘seconda ondata’. A differenza di molti suoi ‘colleghi solitari’ Shatraug ha intrapreso sin dagli inizi attività in studio e live con alcune delle band più conosciute nel panorama, basti citare Horna e Sargeist per capire di chi (e cosa) stiamo parlando.

Mentre il side-project Mortualia nasce nel 2007 accanto al cugino Necroslut (sotto il monicker  SS Hellseeker), direzionato in chiave death metal. Questo saper splittarsi continuamente ha portato Shatraug a scoprire il lato più intimo, estremo, funereo, riversato sul secondo album “Blood Of The Hermit”, uscito in prima stampa nel 2010.

Non useremo termini come ‘suicidal, depressive’ e simili, ma passeremo a trattare ambienti metafisici, unici, che conducono in terre desolate, fredde, aride, dove tutto è rarefatto. La musica è un ‘mezzo’ di condivisione, ma in questo caso specifico diventa un’espressione continua e incessante di sentimenti, di stati d’animo, di disagio, di tristezza, che va a incontrare l’inconscio in una simbiosi della durata di un’ora, che rimarrà intatta per una vita intera.

La paranoia incessante di “Becoming Meaningless” è ‘descritta’ a tratti grigio-neri, spezzata da quello che è l’urlo cosmico del cavallo picassiano in Guernica, improvviso e incessante, che esprime il disagio e il dolore per una situazione al limite della vita terrena. La musica è tetra, gelida come i mille laghi d’inverno; i lenti arpeggi portano a riflettere intimamente sull’esistenza, sulla disperazione, sulla morte. Ogni singolo istante è vissuto come un’esperienza unica e irripetibile, portando la mente in trance nei suoi dodici minuti.

Il riff iniziale di “Manic Euphoria” viene spezzato da un altro maniacale, di quelli che si abbattono come un improvvisa grandinata in una giornata stupenda. Ma qui di solare non c’è nulla, c’è solo il cercare un contatto con chi si confronta con questo progetto così unico e profondo.

«Black Waters Gleam, Reflect The Distant Stars, Old And Deserted Place, Where No Other Dwells, Harbouring Loneliness, By The Purifying Breeze, Where Night Darkness,, Does Not Seize To Fill The Sky» racchiude l’essenza di “The Sinister Shine”, dove l’incessante lento e monotono della batteria lascia gli spazi per innesti di frammenti melodici, grezzi, quelli che fanno di questo disco un capolavoro. Gli equilibri vengono spezzati sporadicamente da folate atonali e inaspettate, che lasciano momentaneamente il terreno amico, per sconfinare altrove, dove nulla è certo, dove non ci sono appigli.

“Blood of the Hermit” rallenta ulteriormente il tiro, come a sfidare i sensi a toccare le corde più intime e profonde dell’Io. Non è questo il posto e il disco di parlare di composizioni e songwriting. Qui si toccano altre ‘corde’, si cerca una speranza, un nuovo pianeta, un nuovo recipiente dove sconfinare le emozioni. Fredda e agghiacciante “Pain At Least” chiude questo inesorabile cerchio, con Shatraug che continua a metterci a dura prova con la sua voce gracchiante, che lascia il nostro corpo solo dopo che l’ultima nota si è spenta, accompagnata da accordi così semplici ma così evocativi che potremmo ribellarci e chiederci: “Perché?” Perché questa musica così maledettamente semplice riesca a sconvolgere il nostro equilibrio interno, senza alcuna reazione, abbandonandoci ogni momento a quello che è un disco che rimarrà per sempre impresso nel cuore, come una pugnalata.

Grazie Shatraug, grazie Mortualia, una girandola di emozioni che in pochi sono capaci di esprimere.

Vittorio “versus” Sabelli

 

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