Recensione: Blood, Strength and Soul

Di Marcello Catozzi - 23 Giugno 2013 - 13:52
Blood, Strength and Soul
Band: The Rocker
Etichetta: Autoprodotto
Genere: Hard Rock 
Anno: 2013
Nazione:
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80

Spronato dai consensi ottenuti con il primo album “Italian Bastards”, datato 27/2/2010, The Rocker (la creatura di Edoardo Arenghi, altrimenti noto come leader dei Riff-Raff, la famosa AC-DC tribute band) si è imbarcato in un’avventura “americana”, andando a registrare il secondo disco proprio in terra californiana.
Le sessioni di lavoro in studio si sono tenute – in agosto e settembre 2012 – presso il Command Studio di Los Angeles (CA); il mixaggio è stato effettuato da Fabrizio Grossi (già produttore di artisti importanti quali Slash, Steve Vai, Billy Gibbons, Dave Navarro, Glenn Hughes e altri), mentre il mastering è opera del celeberrimo Pete Doell (Universal Mastering Studios), un vero guru del mastering (e qui davvero non sarebbe sufficiente una pagina per elencare le illustri collaborazioni che formano il suo curriculum).
Oltre al citato Edo Arlenghi, autore di testi e musica, hanno partecipato alla realizzazione del disco il chitarrista Serjoe Aschieris, il bassista Fabrizio Grossi (Steve Vai, Steve Lukather, Glenn Hughes, Chad Smith, Kenny Aronoff) e il batterista Simon Wright (AC-DC, UFO, Rhino Bucket, Ronnie James DIO, Dio Disciples), il quale peraltro aveva già suonato in tour, con il gruppo italiano, alla fine del 2011.
Nell’occasione è stato anche realizzato un video della title-track “Blood strength and soul”, in pieno deserto californiano, nella stessa location in cui sono state girate alcune scene di Star Wars.

Fatte queste doverose premesse, giunge l’ora di scartare l’involucro (sullo sfondo nero della cover campeggia il disegno di una testa di tigre circondata dalle fiamme e circoscritta dal nome della band e dal titolo del disco, in giallo) e far ruggire il lettore CD, senza altre chiacchiere. Let’s go!
“Sex, spaghetti & R’n’R” parte a manetta con un giro di chitarra e basso a cavallo tra boogie-woogie e R’n’R, che trascina e travolge nel segno di un ritmo sfrenato e irriverente. La voce è tirata e grintosa al punto giusto, mentre il guitar solo si pone in linea con lo spirito sfacciatamente “Eighties” che trasuda questa canzone, sprizzante energia da tutti i pori. Ritornello orecchiabile e incalzante e spontaneità d’approccio dei suoni sono le componenti essenziali di questa canzone, candidata a prossima hit in un contesto “live” e, come tale, degna erede del precedente successo “Italian bastards”, nel segno della continuità di marca The Rocker.
“Deadly waves” si apre con il micidiale stacco di batteria di Simon Wright, prontamente affiancato dal riff che costituirà il motivo trainante del brano, unitamente a un basso martellante e adrenalinico. Questa song, che fra l’altro è arricchita da un testo molto profondo (il tema riguarda eventi disastrosi quali lo tsunami e il terremoto di Fukushima), è solida e muscolosa, con il solo intermezzo di un bridge più pacato, che sfocia poi in un finale pirotecnico.
“Porno” è un altro pezzo vigoroso e gagliardo, introdotto da una schitarrata hendrixiana e sorretto da una base ritmica rocciosa. Qui si parla di pornografia e le parole sono intriganti e provocatorie, ma anche in questo caso è la musica nel suo insieme a restare scolpita nella memoria, per quelle sonorità così familiari e immediate, specialmente per chi può vantare una cultura e delle radici ben piantate nella storia del Classic Hard Rock.
“Blood, strength and soul” è contraddistinta da un inizio di chitarra tagliente, con un suono penetrante e arrotato, che apre la strada a una voce altrettanto coinvolgente: “Does it happen ever to you to feel free like animals do? To me it happens all the time…”. Nel segno della libertà selvaggia la title track procede fino al ritornello, tanto “catchy” nella melodia quanto significativo nelle parole: “Riding, riding in the wind, wild spirit driver me home. My body tells me I’m so alive, my mind controls blood strength and soul”. L’essenza di questa song sta tutta qui, ben rappresentata da un guitar solo di notevole spessore ed espressività.
Dalle prime note di “Sinners and Saints” si intuisce che è arrivata l’ora della ballad: l’arpeggio e una voce carezzevole introducono questo delicato momento, molto emozionale, successivamente irrobustito da basso e batteria secondo i criteri “architettonici” della Old School e culminante con la parte centrale, in cui la voce si fa più struggente e acuta, tanto da fondersi con l’inizio di un lancinante, struggente assolo chitarristico. La chiusura, armoniosa, riprende il motivo iniziale, accompagnato da indovinatissimi cori di ispirazione gospel.
“Nothing to tell” esordisce con una sonorità blueseggiante, seguita da un attacco di riff tremendamente accattivanti e incisivi. La canzone procede senza fare prigionieri, assai trascinante nelle note e nel testo: “If you’re not a sinner, you ain’t got nothing to tell. If you’re not a dreamer, you live in your own hell…”. L’assolo di chitarra è quanto mai azzeccato e spontaneo, e perciò di grande effetto e impatto.
L’attacco di “Fuck these politics” è piuttosto rabbioso ed esprime, nella sua rudezza, il messaggio sottostante nel quale, con ogni probabilità, ogni ascoltatore può riconoscersi, in quanto parla di tutte le porcherie e il marciume che fanno parte della politica. Attualità di contenuti e potenza di suoni, cori insistenti e incazzati quanto basta sono i tratti distintivi di questo originale episodio.
“Lust” inizia con un vizioso slide in primo piano, a cui fa seguito una voce maligna e sfrontata che prelude a una successiva esplosione di ritmo e grinta. La trama di basso è molto netta e marcata e fa da telaio a un ritornello lussurioso (vedi titolo), mentre il guitar solo è ben confezionato e si lega alla perfezione con il resto del tessuto armonico.
In “Hard on” gli stacchi iniziali lasciano spazio a un riff di immediata infiltrazione nella materia cerebrale, così come pure il refrain. Orecchiabile e massiccia nello stesso tempo, la canzone procede spedita come un treno, condotta con maestria da una voce intrigante e grintosa, attraverso una fase di rallentamento centrale subito assecondata da un assolo vigoroso, acuto e potente, in ossequio alla grande tradizione classica.
L’ouverture di “Rising” è dominata da uno slide malizioso che evoca le distese polverose e soleggiate del Grande Sud; chitarra acustica e voce, discretamente assistite dallo slide, danno il via a questa rock ballad che, via via, acquista sempre maggiore corposità e forza, fino a un ritornello che fa riflettere: “Remember when you touch the bottom, you can only rise again… Rising from the bottom, got no fear to rise again..” Sapienti e dosati stacchi di batteria, voce più che mai profonda ed emozionale, assolo chitarristico di grande consistenza sono i fattori vincenti di questa canzone di pregnante intensità.
A spegnere gli echi della tenerezza lasciati dalla traccia precedente ci pensa “I’ve got a life”, che si lancia senza freni galoppando a tutta velocità nelle sterminate distese californiane, con sonorità moderne (nel suo refrain cadenzato) e stacchi rabbiosi, e con la melodia sempre sorretta dall’inconfondibile rullante marchiato Simon Wright, fino alla chiusura esplosiva.

Terminata la scorpacciata di queste undici portate succulente, non si può non sentirsi soddisfatti del prodotto consumato con comprensibile ingordigia. Il disco suona alla grande (complimenti alla produzione) e le tracce risultano costruite con perizia e gusto, nel segno della semplicità e dell’immediatezza. Se l’intento dell’autore era quello di realizzare un album capace di colpire al cuore dei fans, direi che l’obiettivo si può considerare centrato, soprattutto per l’impatto che ogni canzone palesa e per il calore che emana. Tutte le song risultano improntate su schemi essenziali, quanto mai accessibili e di facile presa, tuttavia ben costruite e ideate con gusto sempre pregevole. In esse – da un lato – si riconosce l’appartenenza ai modelli classici, familiari per tutti gli amanti dell’Hard Rock (tanto per citare alcuni richiami, si potrebbe pensare a: AC-DC, Buckcherry, Quiet Riot, Rolling Stones, The Cult, i primi Guns & Roses, L.A. Guns, Cinderella, tanto per evocare i più evidenti), ma – dall’altro – è possibile riscontrare anche connotazioni di Rock Blues, senza disdegnare incursioni in ambito Sleaze e Southern Rock, a vantaggio di una lodevole eterogeneità e varietà durante tutto il percorso d’ascolto. In sostanza si potrebbe affermare che “Blood strength and soul” rappresenti un genuino quanto affascinante salto nell’Hard Rock anni 70/80, con un valore aggiunto costituito dalla modernità dei suoni e degli arrangiamenti, talvolta volutamente scarni a esclusivo vantaggio del groove, che è la base e il fondamento di questo intramontabile genere musicale e che, nel caso in esame, garantisce un coefficiente di penetrazione altissimo.
Da un punto di vista più strettamente emotivo (per tutti gli irriducibili rockettari dotati di un cuore romantico) sono le due ballad, rispettivamente “Sinners and Saints” e “Rising”, a regalare pathos a volontà. Non è eretico affermare che, se queste canzoni fossero state prodotte da band più famose (e come tali in grado di fruire del supporto commerciale di una macchina organizzativa importante), sarebbero diventate in poco tempo delle hit in ogni classifica, con frequenti passaggi radio, tv ecc. Ma – ahinoi – sappiamo bene tutti come gira (o “non” gira) nel nostro Belpaese, sotto il profilo musicale…

Pare comunque più opportuno, sulla scia dell’entusiasmo suscitato da “Blood strength and soul”, evitare di sollevare il coperchio della pentola dello showbiz italico, astenendoci dai soliti (tristi) discorsi, per gustare invece le qualità di questo prodotto discografico, candidato a proporsi come una delle migliori uscite del 2013: songwriting di ottimo livello, con interessanti tematiche trattate; ragguardevole lavoro strumentale, con una nota di merito particolare per il giovane talentuoso Aschieris e i vecchi volponi Fabrizio Grossi e Simon Wright, che non hanno bisogno di presentazioni; performance vocale degna di considerazione per un Arlenghi finalmente staccato dai cliché di rimembranza AC-DC; infine, al di là delle doverose osservazioni di natura tecnica, la grande carica e il fascino che le canzoni riescono a trasmettere sul piano delle emozioni.
Fra le domande che sorgono spontanee dopo l’ascolto del CD (e che Truemetal presto rivolgerà ai diretti interessati) aleggia un interrogativo: se il progetto The rocker, dopo questa seconda puntata, avrà un seguito anche e soprattutto nel settore “live”.
Nel frattempo, si potrà godere appieno delle vibrazioni di questo sanguigno “Blood, strength and soul”.

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