Recensione: Borknagar

Di Daniele Balestrieri - 18 Dicembre 2004 - 0:00
Borknagar
Band: Borknagar
Etichetta:
Genere:
Anno: 1996
Nazione:
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92

Sono trascorsi appena dieci anni, eppure guardando la copertina di Borknagar non si può fare a meno di pensare che erano davvero altri tempi.
Nei mesi finali del 1995 gli Ulver tiravano le fila della loro storia, gli Enslaved tiravano le cuoia e il Viking Metal moderno tirava completamente a caso, verso obiettivi non ancora formati e distinti. La Svezia in quel periodo era un brulicare di band alle prime armi, che in poco più di un paio d’anni avrebbero creato un cavo d’onda che avrebbe sotterrato la tradizione norvegese e avrebbe risvegliato quella finlandese, destinata a dominare gli spalti all’alba del terzo millennio.

Dieci anni – i Satyricon, gli Emperor, gli Immortal, i Darkthrone, i Mayhem erano ormai mostruose entità adulte, in procinto di ascendere all’olimpo degli indimenticabili della Madre Norvegia, e tutto intorno alle loro leggende gravitavano personalità di grande rilievo, il cui eclettismo odierno deve molto a questo piccolo pezzo di storia, che ha segnato il primo passo di una delle band tuttora in opera più acclamate del panorama Scandinavo.
Le allora giovani menti che prestarono la loro arte ai Borknagar rispondono a nomi leggendari come Garm, indimenticabile voce degli Ulver e degli Arcturus, Øystein G. Brun, militante anche negli Asmegin, l’eccellente tastierista Ivar Bjørnson e il compianto Grim, che ha prestato le bacchette ai Gorgoroth, dei quali è presente al basso Infernus. Tra le mani di tanta esperienza non poteva non sorgere una stella brillante, a cavallo tra il black e il folk antico, tra le nubi di quello che sarebbe diventato per tanti anni lo stilema del movimento del Viking Metal.
Le influenze del black norvegese sono immediatamente riconoscibili: l’album suona dannatamente grezzo, sporco, in perfetto stile Ulver, e le tastiere minimali e folgoranti riportano alla mente gli Enslaved dei furiosi giorni di Vikinglir Veldi e di Frost.

Borknagar è uno di quegli album che ho sempre avuto timore di recensire, una sensazione sgradevole che ha accompagnato anche la recensione di Empiricism ed Epic. Perché possono passare gli anni e cambiare le carte in tavola, ma i Borknagar hanno sempre vantato una moltitudine di livelli di lettura e percezione, una caratteristica che rende molto difficile la loro catalogazione e l’umiliante riduzione della loro arte in scritto. Una sensazione intorpidente, spazzata via dal turbine dell’arcigna voce di Garm che dà il benvenuto con “Vintervredets Sjelesagn“, l’urlo dell’anima del black che si risveglia tumultuosa tra le gelide vallate dei fiordi, e risuona scomposta e selvaggia nella nebbia fitta.
Passa appena un minuto, e prendono forma immediatamente i grotteschi cori maschili che gettano un’ondata di epos tra le chitarre tumultuose e le tastiere struggenti, creando una delle canzoni a mio avviso più coinvolgenti dell’intero panorama Viking. Nulla è lasciato al caso, e la batteria scandisce regolare e selvaggia una struttura melodica tutt’altro che scontata, passando da fraseggio a fraseggio verso il culmine strumentale, a cui Garm lascia spesso il passo, limitandosi semplicemente a un’opera di distruzione con i suoi urli ormai marchio di fabbrica del black norvegese di primisssima scelta. Saranno sette minuti di canzone, eppure tra i radi momenti di tranquillità si sente lo stridore dello scalpello che scolpisce ciò che sarebbe diventato storia.
Un breve, drammatico stacco strumentale, “Tanker Mot Tind (Kvelding)“, ci introduce alla sequenza notturna dell’album, che irrompe gelida con “Svartskogs Gilde“, canzone disperata in cui le ottime prestazioni di Grim e Garm dimostrano quanto il black metal più grezzo sia ancora la forza primordiale indispensabile per nutrire ed elevare lo spirito pagano del loro lavoro, dedito alla riscoperta della natura e del proprio ruolo di dominatrice delle emozioni umane. La violenza, esattamente come in natura, viene spezzata di netto con l’introduzione in chitarra acustica di “Ved Steingård“, una strumentale il cui compito è creare equilibrio e armonia, in uno scorrere vivido di strumenti a corde, senza intromissioni ritmiche né vocali, e già da questa breve traccia si nota l’eclettismo che sarebbe poi esploso diversi anni dopo in Quintessence. Fenomenale l’attacco quasi Bathoriano di “Krigsstev“, in cui dà grande prova di sé una batteria marziale e una cadenza strumentale che riporta la mente alle marce belliche degli eserciti del nord, ruvide e senza fronzoli. Torna Garm a tormentare le menti con “Døden“, in cui si intromette anche una strofa in cantato pulito, di grande pregio tecnico e di furore epico – tutto in Døden sembra chiamare gli Enslaved di Frost e i Solefald di Linear Scaffold, grazie a un sapiente uso della chitarra e della tastiera, il tutto in preparazione di quella canzone che è a mio giudizio l’apice dell’album, “Grimskalle Trell“. Ciò che avete sempre sognato di ottenere dal Viking e dal Black-Folk è sintetizzato in questi cinque minuti e mezzo di canzone: Grim ancora lacera l’aria opprimente con i suoi urli agghiaccianti, mentre le chitarre sostengono impetuose delle melodie ben strutturate, sempre di gran richiamo Enslaved, dalle quali i Mithotyn attingeranno a grandi mani per creare alcune tra le tracce più imponenti di Under the Sign of the Raven e di Gathered Around the Oaken Table.
L’uragano scema quindi in “Nord Naagauk“, che raffredda gli spiriti e passa senza soluzione di continuità a “Fandens Allheim“, un gorgogliante, feroce, fulminante ritorno ai tempi degli Ulver, senza tralasciare le eredità imponenti degli Immortal di At the Heart of Winter o dei primi Emperor. Continua senza sosta la battaglia tra le origini del black e il folk norvegese, finché i primi raggi dell’alba non pongono fine alla notte di guerra con “Tanker Mot Tind (Gryning)“, outro strumentale gemella dell’intro, che quasi scherzosamente termina pizzicando le corde degli strumenti e delle tastiere, rendendo omaggio al sole che sorge e alle nebbie che si diradano oltraggiate dalla sua luce.

Vera essenza dei tempi che furono, Borknagar è uno di quegli album imprescindibili per chi ha voglia di riscoprire una delle rare gemme di Viking norvegese, lontano dai romanticismi della Svezia, e legato fortemente ai tumulti della tradizione nordica occidentale. Un raro esempio di violenza allo stato brado e epos primigenio, ancora in fase di profondo squilibrio, visibilmente ben radicati nelle passioni delle grandissime personalità che hanno reso possibile un tale lavoro.
La registrazione, ovattata e povera, segue le ferree regole del black metal, così come le liriche – esclusivamente in norvegese – mentre le emozioni suscitate da ogni canzone rispondono ai dettami di quella mistura portentosa che verrà unanimamente riconosciuta come viking metal, ben rappresentata da una delle copertine più potenti dell’intera produzione.

A distanza di dieci anni potrà non avere lo stesso impatto che ebbe nel movimento underground di allora, e potrebbe anche essere sottovalutato o snobbato dagli ascoltatori che sono approdati al genere quando aveva già completato il suo sviluppo: sotto quest’ottica, Borknagar potrà sembrare un lavoro sporco e innaturale, specie alla luce delle ultime produzioni decisamente più complesse e mature: a costoro consiglio di aprire la mente alle origini di ciò che è stato reso grande negli ultimi anni, perché senza i Borknagar probabilmente le cose non si sarebbero evolute nello stesso modo. A chi invece porta quest’album nello fagotto ormai da tanti anni, non dico nulla d’altro: la strada la conoscete già.

TRACKLIST:

1. Vintervredets sjelesagn
2. Tanker mot tind (kvelding)
3. Svartskogs gilde
4. Ved steingård
5. Krigsstev
6. Døden
7. Grimskalle trell
8. Nord naagauk
9. Fandens allheim
10. Tanker mot tind (gryning)

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