Recensione: Brand New Revolution

Di Roberto Gelmi - 6 Agosto 2015 - 12:00
Brand New Revolution
Band: Gus G.
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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73

A poco più di un anno dal buon I Am The Fire, il talentuoso shredder, in forze alla Ozzy Osbourne band, pubblica il suo terzo album solista, che presenta l’ennesimo cast di special guest illustri. L’artwork ricorda le copertine dei Firewind, il titolo è convenzionale come non mai, è la musica che conta.

E allora immergiamoci nel platter, composto da dodici canzoni dal minutaggio breve.
L’opener strumentale, “The Quest”, è un pezzo su ritmi sostenuti, che si dipana attorno a un riff velocissimo, sapientemente modulato, e una sezione ritmica heavy. Ottime le sovraincisioni, le chitarre droppate e la sezione solistico-virtuosistica. C’è spazio anche per la melodia e una deliziosa coda semiacustica dagli echi malmsteeniani.
La titletrack  è un brano da poco più di tre minuti, con un refrain catchy cantato da Jacob Bunton (Lynam), che graffia poco sugli acuti, ma dimostra un certo eclettismo sulle strofe. Buona musica, ma un poco prevedibile. “Burn” è la composizione più corta in scaletta: tiro AOR e un ritornello facile facile, poi ci pensa la tecnica di Gus per lasciare il segno. Intro suggestivo per “We Are One”, solo voce e chitarra acustica, poi ritornano le chitarre droppate. Bunton canta come nei due pezzi precedenti, niente da segnalare in fatto d’originalità, se non un acuto azzardato in malo modo.
Dopo tre tracce con un unico singer, per rompere gli schemi ci pensa una voce femminile. I toni si fanno leggermente più pesanti e pare di ascoltare l’ugola magnetica di Anneke Van Giersbergen. Mai abbaglio fu più grossolano! La vocalist in questione è niente meno che Elize Ryd, valchiria in forze agli Amaranthe, ma anche special guest oggi molto gettonata (Timo Tolkki’s Avalon, Kamelot). “What Lies Below” risolleva le sorti del platter e si rivela una hit da non sottovalutare, basti l’acuto magistrale sfoderato da Elize nel finale.
Ritroviamo Bunton nel brano successivo, “Behind Those Eyes”, ballad con un buon refrain e un assolo ispirato, ma manca il quid decisivo per farne un pezzo memorabile.
Gone to Stay” è una composizione abbastanza anonima, ma fa piacere ascoltare la voce di Jeff Scott Soto, che si conferma cantante inconfondibile e inossidabile.
Inizio smagato per la successiva “One More Try”, ballad vicina al sound di Ozzy Osbourne, ma cantata da un mediocre Bunton.
Con un inatteso avvicendamento al microfono, il falsetto acido di Mats Levén è protagonista di “Come Hell or High Water”. Il singer svedese aveva impreziosito il precedente album solista di Gus G. In Brand New Revolution canta solo in tre pezzi, ma lascia il segno. Sarebbe stato interessante, altresì, ascoltare Jørn Lande interprete di questo brano hard rockeggiante…
Ancora tinte AOR, ma con inserti droppati, in “If It Ends Today”: Gus spinge sull’acceleratore nel prefinale e si avvicina a un certo John Petrucci. Poco convincenti le secondi voci nel refrain.
Più cattiva la seguente “Generation G”, dove ritroviamo Jeff Scott Soto. Buon pezzo hard’n heavy, peccato per la collocazione in fondo alla tracklist, che si conclude con la composizione più lunga del lotto, “The Demon Inside”. Inizio in crescendo con chitarra semiacustica, tastiere struggenti e un Levén teatrale (che sembra richiamare il passato con i Therion). Linee di basso poderose, guitarwork saturante, un ottimo brano per chiudere al meglio un disco intessuto di luci e ombre.

Brand New Revolution è tutto qui. In sostanza un disco di mestiere che si salva grazie agli ospiti presenti, ma manca della coesione del precedente album. Consigliati “The Quest”, “Burn”, “What Lies Below” e “The Demon Inside”, il resto si lascia ascoltare ma ha poca longevità.

 

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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