Recensione: Breaking The Spell

Di Marco Tripodi - 16 Luglio 2018 - 8:00
Breaking The Spell
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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Sono in attività da una decina d’anni circa i roveretani Sign Of The Jackal. Il loro è un percorso tutto all’insegna della nostalgia e della malinconia insanabile per la perduta età dell’oro metallica, seppellita sotto le sabbie incuranti della clessidra di Cronos. Sto parlando degli anni ’80, patria ideale che i cinque Sciacalli portano stampigliata persino sulla carta d’identità alla voce “residenza”. Tutto di loro rimanda a quel decennio, attitudine, look, musica, titoli e testi delle canzoni, copertine dei dischi. “Born too late“, come direbbero i Saint Vitus. Ad oggi la loro discografia consta di un demotape, un EP e due album; tra questi il qui presente “Breaking The Spell“, appena licenziato sul mercato dalla newyorkese Wax Maniax Records. Seguo la band dagli esordi e sono contento dei buoni riscontri che sta ricevendo. Le prime recensioni lette sin qui – estere e non – sono unanimemente positive, alcune davvero trionfanti. Non è mai scontato per una band italiana (a meno che non si chiami Lacuna Coil o Rhapsody).

Nonostante ciò, “Breaking The Spell” a mio parere non è l’episodio migliore della discografia dei S.O.T.J.. Mantiene coerenti ed intatte le loro tipiche coordinate stilistiche, talmente coerenti ed intatte che in termini di songwriting non si registra praticamente il minimo avanzamento; una stasi, il che a livello generale mi ha impressionato in misura assai minore rispetto al precedente “Mark Of The Beast“, pur datato 2013. Un limite credo si possa senz’altro individuare nella Produzione, ai limiti dell’underground (ma oggigiorno diversi “demo” hanno suoni molto più ricchi, potenti e trascinanti). Immagino che, in accordo all’attitudine dei ragazzi, anche la scelta produttiva sia da intendere come tale, una scelta ponderata e consapevole, una precisa volontà “analogica” in osservanza dei dettami anni ’80 (dettami obbligati ai quali le band dell’epoca non si sarebbero potute sottrarre, “Heavy Metal Manac” degli Exciter non sarebbe potuto suonare diversamente in nessun caso). Tuttavia questo ennesimo dogma ideologico a mio giudizio finisce con l’inficiare la resa delle canzoni che altrimenti, adeguatamente valorizzate da una miglior Produzione, sarebbero risultate un po’ meno sgonfie e appiattite.

I S.O.T.J. non si discostano dal retro metal di acts internazionali come Enforcer, Cauldron, White Wizzard, Black Trip, Night Demon, Spellcaster e similia – un plotone di giovani/vecchi rocker nati un bel pezzo dopo le gesta gloriose dei gruppi appartenenti alla NWOBHM, e più in generale del sottobosco tedesco, americano e inglese degli Eighties – perdutamente innamorati di quelle sonorità mitiche, per non dire mitologiche, fideisticamente idealizzate 30 anni dopo. I S.O.T.J. vogliono in ogni modo inserirsi in quel solco ed appartenere a quella élite, conformandosi in tutto e per tutto ai dettami dell’heavy metal degli anni ’80 (compresa una track list scandita da un amore sconfinato per le pellicole horror e di genere). Una prima sostanziale differenza però sta nella già menzionata Produzione; gli album degli Enforcer o dei Cauldron (per citare i due esponenti di quel movimento probabilmente più validi e quotati attualmente) sono assemblati in maniera eccelsa per quanto riguarda il sound elaborato in consolle. Il loro metal suona “antico” ma sparecchia i tavoli, perché nel 2018 avere una produzione datata e ferma al palo del 1984 rasenta l’autolesionismo.

In termini di qualità del songwriting i S.O.T.J. avrebbero tutte le carte in regola per raggiungere i piani alti del retro metal; il tempo verbale è obbligatoriamente il condizionale anziché l’indicativo presente poiché quelle qualità al momento rimangono in potenza, da sviluppare ulteriormente, affinare, mettere a fuoco. “Breaking The Spell” suona ancora un po’ acerbo, pecca di qualche ripetizione di troppo; d’accordo suonare filologicamente anni ’80, ma un po’ più di dinamismo interno tra brano e brano non guasterebbe. Idem dicasi per l’interpretazione vocale di Laura Coller, naturalmente subito accostata a leonesse del calibro di Doro Pesch e Leather Leone. Rocciosa, grintosissima e spaccaossa, però troppo monocorde ed attestata quasi unicamente sul registro urlato e aggressivo, col risultato di perdere qualche sfumatura di colore che invece avrebbe anch’essa apportato profondità alla resa complessiva dell’album. Di positivo c’è molto nei solchi del disco ma a mio parere i S.O.T.J. dovrebbero evitare di cullarsi esclusivamente nella stretta aderenza al verbo, inseguendo uno dopo l’altro tutti i cliché possibili e immaginabili del metal ’80. Pur gravitando istituzionalmente all’interno di esso, sarebbe opportuno lavorare per far emergere con maggior evidenza una propria personalità, una propria fisionomia, esaltata da quegli ideali ma capace al contempo di incuriosire l’ascoltatore e stare sulle proprie gambe. Un equilibrio difficile, me ne rendo conto, che ai S.O.T.J. ancora sembra precluso e che invece altre band che marciano sullo stesso sentiero hanno dimostrato di aver trovato.

Marco Tripodi

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