Recensione: Bring the Magik Down

Di Stefano Usardi - 2 Febbraio 2018 - 11:04
Bring the Magik Down
Band: Riddlemaster
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 2017
Nazione:
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74

Nuovo progetto per l’inesauribile, instancabile e inossidabile Mark Shelton che, non pago delle recenti uscite di Manilla Road e Hellwell, fonda i Riddlemaster insieme a Rick Fisher, storico batterista dei primi album dei Road, e al misterioso bassista E.C. Hellwell per rispondere a una sua semplice curiosità: come suonerebbero oggi i Manilla Road se la collaborazione con Fisher non si fosse interrotta, portando poi all’ingaggio di Randy Foxe?

Detto, fatto.

Bring the Magik Down” è un lavoro che affonda le sue radici nell’hard rock psichedelico, nel folk rock e nel blues più ragliante, allontanandosi apparentemente dai suoni duri e più prettamente metallici di un “Open the Gates” o di un “Mystification” per abbracciare le morbide evoluzioni degli anni settanta, con lunghe digressioni acustiche alternate a rapide sfuriate e un gusto a tratti progressive già incontrato in “After the Muse” (che, col senno di poi, potrebbe essere definito una sorta di antipasto allo stesso “Bring the Magik Down”; se ve lo siete persi rimediate subito, ne avevo parlato qui). Sei brani, la cui durata varia dai cinque minuti scarsi fino a sfiorare il quarto d’ora della title-track, per un totale di quarantotto minuti, durante i quali il dinamico terzetto si gode a modo suo una passeggiata sul viale dei ricordi, intessendo melodie avvolgenti e maestose e creando una struttura multiforme per sostenerle al meglio. Si prenda ad esempio la già citata title-track, posta in apertura: riff minacciosi e dall’insistente profumo di Manilla Road aprono le danze accompagnandosi alla voce nasale dello Squalo, salvo poi cedere il passo a una delicata sezione strumentale, ai limiti della new age, in cui si ritrova l’amore per certe atmosfere spaziali prima di tornare all’hard rock più protervo ed incontaminato, scandito da una sezione ritmica puntuale che diventa sulfurea nel finale rallentato e marziale. Quattordici minuti che sembrano tre, dalla facilità con cui scorrono. “Crossing the Line”, con i suoi arpeggi malinconici e compassati e le rapide pennellate di Shelton, fluttua leggiadra negli anfratti della psiche dell’ascoltatore, riverberando delicatamente le sue melodie dilatate in un’atmosfera di pace a lungo cercata, che trova il suo compimento nella successiva “Every Mothers Son”, dal profumo country e dalle melodie più canoniche e decise, impreziosita da un lavoro di cesellatura chitarristica abbastanza normale per un tipo come Shelton ma che è sempre bello ascoltare. “Lair of the White Witch” introduce nell’amalgama sonoro una nota di minaccia, mentre la solennità del pezzo si irrobustisce grazie alla precisione avvolgente di una sezione ritmica che si fa ora pressante, ora guardinga, ora ipnotica. Quest’atmosfera si dissipa col sopraggiungere di “Ghosts of the Plains”, che torna a stillare melodie rilassanti per beccheggiare teneramente tra inserti acustici delicatissimi e fraseggi psichedelici che, a loro volta, si insinuano tra un arpeggio e l’altro come i primi raggi del sole tra sbuffi vaporosi di nebbia mattutina. Chiude l’album la ben più chiassosa “Go for the Throat/Be the Wolf”, in cui il blues più arrogante incontra il south rock e si fa arcigno per chiudere degnamente questa rimpatriata con un po’ di sana cafonaggine.

Diciamolo subito, forte e chiaro: “Bring the Magik Down” non è un album per tutti, e anche gli estimatori dei Manilla Road più epici e agguerriti potrebbero metterci un po’ per apprezzarlo, ma se amate le atmosfere dei primi album della band di Shelton, quelli in cui l’epic metal era soltanto un vagito nell’ombra che necessitava un ulteriore sviluppo, e soprattutto quelle del rock blueseggiante degli anni settanta, provate a dare un’occasione all’esordio  dei Riddlemaster, non ne resterete delusi.

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