Recensione: Broken Balance

Di Roberto Gelmi - 30 Aprile 2014 - 10:10
Broken Balance
Band: Astra
Etichetta:
Genere:
Anno: 2014
Nazione:
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75

Sono passati più di dieci anni dal lontano 30 agosto 2003, giorno che vide esibirsi al Symbol Club di San Marino i giovani Astra, cover band italiana dei Dream Theater, insieme a Jordan Rudess, sotto l’egida dell’Italian Dreamers. Da allora i laziali hanno continuato ad affinare capacità tecniche e compositive, arrivando oggi al terzo album in studio.
Contrariamente al titolo, non siamo di fronte a un disco poco coeso, semmai il contrario: il gruppo dei fratelli Casali ha trovato un proprio equilibrio, che non verte esclusivamente sui virtuosismi e tempi dispari, ma anche su testi ispirati e ricerca melodica delle linee vocali, questa volta interpretate magistralmente dal talentuoso bassista Andrea Casali, che sostituisce Titta Tani, uscito dalla band.
Se in passato i nostri hanno in parte ricalcato quanto di buono concepito dai corregionali DGM, oggi resta solo il tastierista Emanuele Casali membro di entrambi i gruppi: gli Astra provano, dunque, e questa volta riescono, a proporre un sound personale e meno derivativo che in passato.
Broken Balance è un album con alcuni pezzi validi, una buona produzione, qualche raro spunto eclettico, ma pesa l’assenza di una ballad memorabile e una suite come tradizione progressive vuole. Siamo livelli più che meritori, ma ancora lontani da un platter geniale.

Le danze si aprono con “Losing My Ego”, composizione che suona fresca, ma con certe giuste asprezze. Nonostante la pesantezza delle 6-corde come da moda attuale, l’opener è ancora legata agli splendenti anni Novanta, punto tutt’altro che a sfavore degli Astra. Da manuale la parte strumentale del brano, con assolo di chitarra, di tastiera e acuto finale di Andrea Casali sugli scudi (al min. 3:56).
Bending in apertura di “Hole in the Silence” con ritmiche groovy, qualche grunt e vaghi sentori opethiani (sull’oscuro e ribattuto “Get out of my hand” delle liriche). Echi fugaci dal sentore Angra nei primi secondi di “Sunrise to Sunset”, pezzo dal refrain sognante e arioso, che ricorda i Sieges Even. Tra i brani migliori del full-length: il combo romano dovrebbe continuare su questa strada.
Cenni djent in “Too late”, che inizia pesante e con laschi accordi insinuanti di chitarra semiacustica (chi conosce i polacchi Proghma-C?). Il brano brilla di uno dei migliori assoli sfoderati da Emanuele Casali, che inizia attorno al quarto minuto e sfocia in un pregevole unisono.
La title-track presenta un main-theme orecchiabile e dimesso; il ritornello gioca sulla metafora dell’araba fenice che risorge dalle proprie ceneri e, al contempo, allude alle vicissitudini del gruppo laziale, “rinato” con la stabilizzazione della nuova line-up. Ottima la coda cadenzata, sulla falsa riga di “Pull Me Under”, con alcune finezze di batteria.
“Faithless” è un’altra traccia su toni terremotanti, con ascendenze à la Vanden Plas, e la presenza di un synth fatato stile Nightwish. Buon mid-tempo “Mirror of your soul” (con un incipit vicino a quello di “The Bigger Picture” dei Dream Theater), con ritmiche petrucciane, campane ridondanti e ottimi vocalizzi di Andrea Casali nel finale, chiuso da note di pianoforte.
Doppietta da headbanging puro quella composta da “Risk and Dare” (che incede supponente, con buoni fill di batteria) e “Break Me Down” (altro brano dall’incipit terremotante e debiti nei confronti dei primi Queensrÿche).
Altro exploit del platter, “Understand” viaggia su sonorità che ricordano il capolavoro Awake dei già citati newyorkesi, ma anche il sound rivelazione degli Haken, infarcito di qualche blast beat, attimi jazz e tempi malati. Le ritmiche thrash attorno al terzo minuto non sfigurerebbero in un album dei Symphony X.
“Ending season” attacca con la magnificenza di certi Threshold. Tanta doppia cassa e delay saturanti di chitarra e il keywiz Casali che sembra immedesimarsi in Jens Johansson. Curiosa la cadenza conclusiva con un graditissimo gong catartico.
“You Make Me Better” chiude degnamente il full-length, con una grinta contagiosa fino all’ultimo secondo e qualche armonizzazione vocale che può ricordare il dettato dei Queen. Un brano in calce che coniuga alla perfezione spirito hardrockeggiante con una mai sopita pesantezza metal.

In sostanza un album più che soddisfacente dopo un lustro d’attesa, a prescindere dalle tante influenze di gruppi più e meno noti che vi sono confluite. Sicuramente non mancano i difetti, quali una certa ripetitività (nella forma canzone, nell’uso dei synth, nelle soluzioni d’arrangiamento) e i minutaggi fotocopia della maggior parte dei brani; tuttavia, spiccano canzoni come l’opener, “Sunrise to Sunset” e “Understand”, indice di una potenzialità non ancora espressa al  suo massimo dal combo italiano. Come dicevano gli antichi la via è sempre faticosa, per aspera

Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)

 

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