Recensione: Broken Pieces

Di Valter Pesci - 8 Gennaio 2015 - 14:00
Broken Pieces
Band: stOrk
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2014
Nazione:
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73

15 aprile 2014, Birmingham (Alabama), ore 05.45. Alla ridicola e giovanissima età di trentacinque anni, ci lascia uno degli artisti più in gamba e sottovalutati degli ultimi decenni, Shane Paul Gibson o, per tutti i fan di questo incredibile musicista, semplicemente Mr. Stork. Non mi dilungherò su questo argomento, onde evitare inutili commenti o di scivolare nel patetico, mi limito, quindi, a riportare la notizia di cronaca senza andare oltre.
Dopo questo cenno necessario, veniamo alla valutazione del secondo lavoro della band americana, che è riuscito a vedere la luce prima che la suddetta tragedia si abbattesse su Lang e compagni.
Broken Pieces si presenta con una grande novità, che inevitabilmente affetterà anche stilisticamente la nuova proposta della band: la pressoché sconosciuta cantante VK Lynne si aggiunge alla combriccola dando una direzione più “commerciale” al sound storkiano. Risalta anche un ulteriore cambio in line-up rispetto al primo cd, infatti al basso non troviamo più il polivalente Eloy Palacios ma, a questo giro, la 5-corde è affidato alla vecchia conoscenza, di gilbertiana memoria, Kelly LeMieux.
Una menzione speciale la merita anche l’interessante artwork e il booklet, raffiguranti un uovo dischiuso che lascia intravedere un piccolo feto, avvolto in una specie di placenta arancione e immagini analoghe all’interno della custodia in cartoncino del cd. Veramente un bel colpo d’occhio.
Curiosi ed eccitati dal fresco ricordo del debut della band, ci apprestiamo ad analizzare l’opener “stOrk”. Riff in 4/4 a introdurre questo primo pezzo, il quale giustamente risente della presenza di una voce e di un testo a cui dover dare risalto. La linea vocale di VK risulta pulita e denota un certo controllo anche se, come suggerisce il primo impatto, avremo modo di trovarla un po’ statica lungo l’intero percorso dell’album. Abituati al precedente seld-titled, non possiamo che notare un’evidente inversione di tendenza per quanto riguarda la complessità strutturale del brano. La parte strumentale finale, stile Train Of Thought, cerca di aggiungere quel pepe in più, anche se onestamente si resta lontani dalla sfrontatezza progressiva del passato.
Non resta che addentrarci nell’ascolto, per constatare se il primo impatto potrà considerarsi una costante dell’intero lavoro o se (come il sottoscritto si auspica), piano piano la vera natura della band, che morde un po’ le briglie in questa prima song, riuscirà ad avere la meglio sulle nuove esigenze “imposte” dal cambiamento in line-up.
Con “Pillow Person” il cantato continua su una linea abbastanza ostinata e ne risente molto il lato espressivo (non necessariamente cercato dalla band), nonché la dinamica stessa della traccia canora. I tempi fortunatamente si complicano e ancora una volta spunta un intermezzo strumentale che ricorda molto il prog theateriano del “periodo oscuro”.
Bat” è uno dei pezzi più coinvolgenti: dopo un inizio un po’ sotto traccia, finalmente l’indole inquieta della band fa capolino da una struttura portante che sembrava sfociare in un effetto “camicia di forza” nei confronti del talento smisurato dei vari componenti. Lo strumentale del pezzo riesce a ritrovare abbastanza agevolmente la sua dimensione originaria, Thomas architetta tempi che a tratti riportano ai fasti del primo lavoro, tuttavia sembra ancora mancare qualcosa… anche i soli del maestro SG, pur essendo di pregevole fattura, stentano un po’ a decollare e orbitano in una galassia lontana da quella in cui guizzavano nell’album precedente.
Heretic” ci riporta sui cari vecchi binari propri della band. Riffone serrato e cupo sul quale si innesta una melodia, cui il nostro caro Gibson ci aveva abituato in passato, al limite del dissonante, dilettandosi in sbalzi di toni. D’altro canto, VK continua con la sua politica vocale, alquanto ripetitiva, quasi ossessiva. Possiamo tirare un sospiro di sollievo, una volta giunti al solo di chitarra: finalmente Shane ci dimostra di che pasta è fatto e sfodera un po’ della sua arte fatta di arpeggi impossibili e shredding coi fiocchi. (NB: i più attenti ricorderanno il dolce abuso di sweep-picking che connotava l’approccio gibsoniano al precedente lavoro; beh, in questo album, finora, nemmeno una traccia di tutto ciò, curioso…).

Eccoci quindi al vero e proprio singolo del disco (di cui è stato realizzato anche il video ufficiale): “Paper Angels”. Qui Lang riprende decisamene in mano la situazione, frammentando a modo suo il tappeto ritmico e proponendo fill interessanti e altre finezze made in Austria. La chitarra lo segue fedele contribuendo alla compattezza del tutto con riff sempre “ruffiani” e precisi, fino ad esplodere in un solo elettrizzante in cui, neanche a farlo apposta, ritornano un paio di sweep ad alleviarci quella che stava quasi per diventare una crisi d’astinenza.

La sesta canzone è “Chainsaw Serenade”. La matrice dello stile storkiano torna a farsi viva con una tempistica a tratti veramente “storta”, come si dice in gergo e come piace a noi fan della prima ora, in cui le due menti creative della band riprendono a sentirsi pienamente a proprio agio, dando sfogo al loro istinto e rispolverando quel groove progressivo malato che un po’ era mancato nella prima parte del cd.

Arriviamo ora ai due pezzi più semplici dell’album: “Delusional” e “Given Away”. A dare un colore più rabbioso alla traccia vocale entra in scena anche Shane Gibson, il quale nella prima si limita ad energizzare le seconde voci e i cori dei ritornelli, mentre nella seconda si ritaglia una parte un po’ più sostanziosa, diventando il cantante solista e relegando al ruolo di supporto l’appariscente collega. Come dicevamo, si tratta delle due canzoni più semplici e ammiccanti al mondo commerciale scritte finora dalla band. Ciò non toglie che oltre ai ritornelli melodici in stile punk moderno (o dal sapore Evanescence) fuoriescano anche riff e brevi break strumentali di un certo spessore.

Mine” rimane un po’ nell’anonimato. Degni di nota solamente un riff effettato whammy, un paio di tempi neanche troppo estremi e l’assolo finale, anch’esso molto “nella norma” e ancora una volta privo di sweep. È la volta, quindi, a “U”, traccia completamente riservata al compianto Shane (e devo dire che riascoltarla conoscendo gli avvenimenti che l’hanno immediatamente seguita mette un po’ di malinconia). Si tratta di un semplice arpeggio stoppato condito di delay che dà quell’effetto tanto caro a molti chitarristi del passato e non (Steve Morse, Tommy Emmanuel e chi più ne ha più ne metta), di sicuro impatto sul pubblico e che assicura una certa dose di carica atmosferica e sognatrice. Bel pezzo.

Siamo ormai in chiusura di platter, con un paio di pezzi abbastanza anonimi. Il binomio si apre con la statica e ripetitiva “Overflow”, impreziosita da un assolo di soli sweep (finalmente!) e da un altro più standard in sfumatura finale. Pezzo abbastanza “inutile” nell’economia del disco. “How Old Are You”, d’altra parte, non regala niente di inaspettato giunti a questo punto del lavoro. Si continua con un tappeto strumentale che funge da mero supporto alla linea vocale o poco più. Se non fosse per l’assolo di chitarra (ancora una volta in stile JP di Train Of Thought), la canzone si chiuderebbe nell’anonimato.

L’ultimo pezzo del full-length è la title-track, “Broken Pieces”. La strada intrapresa da questa ballad è ben definita fin dalla prima battuta. Unico caso nella storia degli stOrk, SG sguaina l’acustica per introdurre con un arpeggio classico e per accompagnare con una base di accordi standard la canzone e la voce di VK. A metà traccia una timida distorsione si aggiunge all’unicum sonoro. Nessuna novità fino alla conclusione del brano.

Siamo giunti al termine dell’album, seconda creatura di quella che si era prepotentemente imposta come unica realtà di spessore assoluto nell’intero panorama prog mondiale. Dopo un disco al limite della perfezione, sotto tutti i punti di vista, come il debut di tre anni prima, era lecito, e azzarderei doveroso, aspettarsi qualcosa di grandioso e fuori dagli schemi da questa seconda opera. Complice l’ingresso in line-up di una voce femminile (non troppo azzeccata per i miei gusti) e il conseguente obbligo di “adattamento”, aggiunta la volontà di avvicinarsi a un pubblico più allargato, il sound generale della nuova proposta storkiana ha subito un’inevitabile deriva concettuale, compositiva e di originalità rispetto a quanto dimostrato nel primo album. Attenzione, nessuno è qui per gridare allo scandalo, e senza dubbio siamo davanti ad un cd comunque interessante e di un certo livello qualitativo, ma allo stesso tempo non possiamo non ridurci al confronto con la precedente release e evidenziare le grosse differenze che le separano.

Riassumendo il tutto, possiamo tranquillamente affermare di essere di fronte a un buon lavoro che però non si è rivelato propriamente all’altezza delle aspettative create precedentemente, per vari motivi. Concludiamo nell’unico modo possibile, unendoci al cordoglio per la perdita di una grande persona, prima ancora di un musicista straordinario (e lo dico senza retorica alcuna). Ancora una volta ci auguriamo che l’anima di Shane Paul Gibson possa riposare in pace, ovunque essa si trovi.

RIP Mr. Stork, we’ll miss you!

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