Recensione: Bullets for a Desert Session

Di Andrea Bacigalupo - 19 Settembre 2017 - 8:30
Bullets for a Desert Session
Band: Warpath
Etichetta:
Genere: Thrash 
Anno: 2017
Nazione:
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50

Non so cosa ha spinto molte band a riformarsi dopo essersi sciolte anni fa: la voglia di rimettersi in gioco, completare il percorso interrotto, in certi casi, bruscamente, una passione che non muore, oppure, il non aver voglia di guardare la televisione la sera.

Se dovessi scommettere sul tedesco Dirk ‘Digger’ Weiss che, a diciassette anni dallo scioglimento, ha deciso di riformare i suoi Warpath punterei sulla quarta ipotesi.

Il periodo di attività principale degli Warpath andò dal 1991 al 1998, anni in cui pubblicarono quattro album, dei quali l’ultimo, dal titolo ‘Kill Your Enemy’, nel 1996.

Nel 2015 Weiss decise di ricalcare i palchi chiamando tre nuovi musicisti (Sören Meyer al Basso, Flint alla chitarra e Norman Rieck dietro le pelli); gli Warpath furono di nuovo in sella e, per sottolinearlo, dettero alle stampe, il 13 gennaio 2017, il loro nuovo Full-Length: ‘Bullets for a Desert Session’, distribuito dalla label Massacre Records.

Il loro è un Thrash abbastanza grezzo e diretto, dai toni cupi e foschi, diviso in due parti essenziali: o sfuriate veloci o tempi cadenzati molto pesanti.

La grande pecca dell’album è però la poca variabilità, nel senso che il songwriting è parecchio limitato. Mi spiego meglio: quasi tutte le tracce o sono veloci oppure sono cadenzate, iniziano e finiscono quasi nello stesso modo, praticamente senza cambi di tempo e varianti intermedie che destino vero interesse. Se si aggiunge la quasi totale mancanza di assoli, che avrebbero potuto spezzare un po’, e l’estrema lunghezza dei brani (estrema proprio per la loro quasi continua ripetitività), ci si ritrova tra le mani (o meglio tra le orecchie) un album della durata di oltre un’ora che diventa presto monotono, con canzoni che, ad un certo punto, non si vede l’ora che finiscano.

Esce da tali schemi l’iniziale ‘Reborn’, che, di fatto, costituisce una buona premessa con la sua rabbia cieca e la parte cadenzata centrale, ma rimane solo quella: le successive ‘I Don’t Care’, ‘Believe’ e ‘When War Begins’ sono tre mid-tempo molto simili tra loro, senza alcuna variabile interna; in alcuni momenti sembra anche di ascoltare un brano rallentato dei Motorhead.

Unseen Enemy’ è una sfuriata che non sembra avere né capo né coda se non per la parte centrale prima melodica e poi pestata. 

Crossing’ è un pezzo scurissimo rallentato che poi prende potenza, ‘Offensive Behaviour’ richiama di nuovo a dei Motorhead con il piede sul freno mentre ‘God is Dead’ (che ruba il nome al famoso successo dei Nomadi del 1967) è un mid-tempo un po’ più pressante ma senza arte né parte.

No More Time to Bleed (Thrashunion)’ ha un buon tiro ma non varia di una nota e ‘The Liar Knows the Truth’ si muove sugli stessi binari della già citata ‘God is Dead’.

Esce nuovamente dagli schemi l’ultimo brano, che dà il titolo all’album: ‘Bullets for a Desert Session’, denso di una scura atmosfera che poi prende potenza.

Insomma: richiamano un po’ di attenzione solo i brani ‘Reborn’, ‘Crossing’ e ‘Bullets for a Desert Session’, un po’ poco, direi, per consigliare l’ascolto dell’album.

Peccato perché il nuovo progetto Warpath, che non è una vera reunion essendo i componenti nuovi per tre quarti, destava un certo interesse. Speriamo nella prossima volta, per ‘Bullets for a Desert Session’ il giudizio è, purtroppo, insufficiente.

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