Recensione: Burn It Down

Di Simone Volponi - 12 Aprile 2018 - 0:23
Burn It Down
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2018
Nazione:
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75

Deen Castronovo (Bad English, Journey) alla batteria, John Corabi (Mötley Crüe, The Scream) dietro il microfono, Doug Aldrich (Whitesnake, Dio) alla sei corde, Marco Mendoza (Thin Lizzy, Whitesnake) al basso, riuniti intorno al chitarrista e fondatore David Lowy (Red Phoenix, Mink)… con una line up così è difficile sbagliare.
I The Dead Daisies nascono come supergruppo aperto, dove i vari membri vanno e vengono a seconda degli impegni. Scopo? Suonare hard rock alla vecchia maniera, rievocando gli anni ‘70 e ‘80. Con un’attività live costante e una serie di album usciti nello stretto giro di qualche anno, i The Dead Daisies sono riusciti a crearsi una grande visibilità e un nutrito seguito (anche in Sud America e Giappone), tanto che a oggi sono tra i migliori rappresentanti della sponda più stradaiola e verace del rock, che li ha visti andare in tour anche con i leggendari e riformati Guns N’ Roses.

Il nuovo “Burn It Down” promette fuoco e fiamme sin dal titolo e, diciamolo subito, non smentisce le premesse. Subito l’opener “Resurrected” regala il primo riffone grezzo e viscerale che lancia il treno delle “margherite” sul binario dello sleazy più sporco; Corabi è la voce giusta per il genere, così vissuta e stradaiola, mastica le strofe con vigore, mentre l’ultimo arrivato Castronovo picchia il ritmo come un fabbro e Aldrich scintilla di classe nell’assolo. Molto bella la coda finale, una sinfonia che si avvinghia alla distorsione e alle dita volanti di Aldrich in un turbine da Suburbia malfamata.
Rise Up” è muscolare e con un refrain dallo stampo classico. La titletrack apre con un andazzo bluesy e scivola nella dimensione AC/DC del primo periodo con un bel corone gradasso. L’arpeggio di “Judgement Day” e il suo mood scuro occhieggiano sia ai Led Zeppelin che ai primi anni ‘90, a certe movenze di Soundgarden e Stone Temple Pilots per intenderci, e l’ex ascia degli Whitesnake piazza prepotente un altro bel assolo. “What Goes Around” è una versione acida degli Aerosmith, seguita da una sfrenata cover di “Bitch”, pezzo meraviglioso targato The Rolling Stones che fa sempre la sua figura.
La netta sensazione ascoltando “Burn It Down” è che i The Dead Daisies si siano compattati maggiormente grazie all’ampio rodaggio live e che adesso riescano ad esprimere al meglio l’unione di componenti che hanno classe, mestiere e carriere che parlano per loro. Corabi si riprende in parte il maltolto ai tempi dei Crue e mostra di essere un vocalist di razza ancora pieno di energia, con quel sentimento di chi ne ha viste tante e riesce a fartele toccare in una ballad come “Set Me Free”. Aldrich insinua la chitarra dosandola in modo organico, e magari si diverte anche di più fuori dall’ombra di mister Coverdale (cui piacerebbe un pezzo come “Dead And Gone” in repertorio). Una sezione ritmica che annovera il duo Mendoza-Castronovo poi non può che essere il tappeto perfetto per delle composizioni che ovviamente e volutamente non inventano nulla di nuovo, ma fanno battere il piede a ritmo, intrattengono, e sono costruite per trovare compimento sul palco.

I The Dead Daisies sul palco ci torneranno subito, il giorno dopo l’uscita di “Burn It Down” saranno lì a sputare energia sul pubblico, perché sono riusciti a fare quello che qualsiasi band sogna ma non tutti raggiungono, ossia costruirsi un pubblico die hard che crede in loro.
Il rock è vivo grazie anche a questi eterni ragazzi scapestrati.

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