Recensione: Burn the World

Di Marco Donè - 20 Dicembre 2017 - 0:01
Burn the World
Band: Portrait
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2017
Nazione:
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70

A tre anni di distanza dall’acclamato “Crossroads” tornano sulle scene gli svedesi Portrait, un nome divenuto sinonimo di garanzia per gli appassionati dell’heavy metal dalle tinte oscure e sulfuree. Partendo infatti dall’omonimo e ingenuo debut album datato 2008, i Nostri hanno saputo maturare disco dopo disco, trovando la propria dimensione con il già citato “Crossroads”. Un lavoro in cui veniva dato maggior spazio alla teatralità, creando un tappetto sonoro meno irruento rispetto ai primi due full length ma perfetto per mettere in risalto la voce di un ispiratissimo Per Lengstedt, sorretto da un guitarwork curato e ricercato. Certo, nulla di nuovo si potrebbe dire, ma ai Portrait non interessa innovare. Da bravi discepoli, a Loro interessa seguire e diffondere l’oscuro verbo predicato dai maestri Mercyful Fate e con il platter datato 2014 hanno saputo creare un album avvincente, in grado di garantire una certa longevità agli ascolti.

 

Dopo una tale presentazione è superfluo dire che le aspettative riguardo a “Burn the World”, questo il titolo del quarto disco della band di Kristianstad, erano elevate. Aspettative che sono addirittura aumentate dopo che i Portrait hanno rivelato gli ospiti presenti nel nuovo lavoro: Set Teitan, già attivo con Aborym e Dissection, e Kevin Bower degli Hell. Dopo aver parlato degli avvicendamenti in line-up che hanno portato agli ingressi in formazione di Fredrik Petersson al basso e Robin Holmberg alla seconda chitarra, non rimane che iniziare l’ascolto di “Burn the World”. Dopo l’intro ‘Saturn Return’ iniziamo a fare sul serio con la title track. Un vero assalto frontale intriso di oscurità, in cui il marchio Portrait è ben evidente. Per Lengstedt è autore di una prova maiuscola, tirata ed espressiva. Il guitarwork, sebbene risulti sempre debitore a nomi storici come Mercyful Fate e Judas Priest, si rivela più articolato, presentando delle componenti che richiamano alla mente alcuni nomi della scena svedese più oscura. Particolare evidente anche nella successiva ‘Likfassna’ e che incontreremo anche in altri capitoli dell’album. Già da queste prime tracce è facile notare come la scelta dei suoni, con quel sapore rétro, sia sempre azzeccata per la proposta portata avanti dalla band, un particolare non di poco conto e che ha sempre contraddistinto le produzioni griffate Portrait. Rispetto al lavoro precedente, però, le chitarre appaiono leggermente “nascoste”, mettendo in evidenza voce e sezione ritmica. Un vero peccato se consideriamo che su “Burn the World” incontriamo il guitarwork più maturo e articolato fin qui espresso dalla formazione svedese. Altro aspetto a balzare subito all’orecchio è la maggiore velocità e aggressività delle composizioni, rispetto a quanto mostrato sul precedente “Crossroads”, perdendo di conseguenza teatralità ed espressività. Le canzoni, infatti, salvo qualcuno dei nove capitoli che caratterizzano “Burn the World”, risultano più veloci e tirate, o nel loro evolvere presentano comunque stacchi con tali caratteristiche. A lungo andare questo aspetto tende ad appiattire un po’ il risultato finale, in particolare per una batteria che, nei frangenti più diretti, risulta essere troppo lineare, facendo perdere dinamica. Lo stesso dicasi per la voce. Il valore di Per Lengstedt non si discute, ma nelle parti veloci è costretto a stare sempre in registri alti e tirati, perdendo parte di quella teatralità che lo aveva contraddistinto in “Crossroads”.

 

Burn the World”, di conseguenza, perde parte della magia che la band di Kristianstad aveva saputo esprimere con il precedente full length, risultando un disco piacevole ma che sa più di occasione mancata per il tanto agognato “grande salto”. Certo, i Portrait ci regalano qualche capitolo veramente ben confezionato, come la già citata title track, ‘Mine to Reap’ e ‘To Die For’, che sembra uscire direttamente da “Crossroads”. Canzoni a cui risulta impossibile resistere, in cui energia, adrenalina e un’aura oscura vengono fatte convivere alla perfezione, evidenziando le grandi capacità del quintetto svedese, ma le restanti composizioni, presentando i piccoli difetti descritti poco sopra, non riescono ad avere la stessa presa. Il quarto platter dei Portrait si rivela quindi un buon lavoro, che saprà sicuramente soddisfare gli amanti del genere, ma a cui manca quel qualcosa in più per poter bissare l’incantesimo creato con “Crossroads” ed emergere definitivamente dal calderone dell’underground. Ad avvalorare quanto fin qui detto citiamo la conclusiva ‘Pure of Heart’, che cerca di rievocare quanto realizzato con la splendida ‘Lily’ nel precedente album. Il risultato, per quanto piacevole, non riesce a riproporre la stessa spettralità e la capacità di ipnotizzare l’ascoltatore. Non rimane che attendere la prossima fatica per scoprire quale sarà la dimensione futura della band. Intanto concentriamoci su “Burn the World”, cercando di gustarci al meglio i suoi pregi e chiudendo un occhio sui difetti. Vi lasciamo con un consiglio: se ne avrete la possibilità, non perdeteli dal vivo. L’intensità e la carica con cui i Portrait affrontano i live sono cosa rara al giorno d’oggi.

 

Marco Donè

 

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