Recensione: Camel

Di Abbadon - 14 Agosto 2004 - 0:00
Camel
Band: Camel
Etichetta:
Genere: Prog Rock 
Anno: 1973
Nazione:
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85

Nb : l’etichetta dell’edizione rimasterizzata in Cd non è la MCA ma la Camel Productions

Formatisi nei primi anni settanta (precisamente tra il 1971 e il 1972) nel Regno Unito, era ora per il quartetto composto da Andy Ward (batteria), Andy Latimer (chitarra e voce), Doug Ferguson (basso e voce) e Peter Bardens (voce, tastiere e uomo di già buona esperienza, in quanto già autore di due dischi solisti e militante in gruppi come Them, Village, Shotgun Express) di presentarsi nel mondo della musica progressiva. Così, dopo un bootleg intitolato “Camel on the Road” i quattro confezionano e pubblicano, dopo 12 giorni di registrazioni (che Latimer ricorda come “un sanguigno incubo”), l’omonimo “Camel”. Il disco, nell’allora a dir poco competitivo mondo del rock progressivo (probabilmente all’apice del suo fulgore, come genere), fece una bella figura dal punto di vista dei contenuti e delle idee, ma non dal punto di vista delle vendite, tant’è che ora quasi tutti pensano che Camel (che vendette nel primo anno di vita solamente 5000 copie) sia stato un lavoro estremamente sottovalutato. Lasciando scorrere i 40 minuti abbondanti di musica nel mio lettore, non posso che essere d’accordo con questa tesi. Ci troviamo infatti dinanzi ad un opera che, se non arriva al grado di monumentale, è comunque splendida, varia e soprattutto dotata di un innaturale calore, che sa avvolgere chi ascolta con innata grazia. Musicalmente viene seguita la scia dei grandi predecessori del combo (i vari Yes, King Crimson ecc), con però una buona personalizzazione del sound, una predilezione per le parti puramente strumentali (che occupano la maggior parte dell’album) e un gran mix di rock con spunti di vario tipo e di altre correnti, che si riscontreranno anche sui successivi “Mirage” e “The Snow Goose”. Ottimo anche il livello dei musicisti (che potete vedere anche in una bella foto in giallo e nero sul retro di copertina) a partire da un geniale Bardens, che regala cambi di tempo e stordenti improvvisazioni a profusione, per arrivare ai buonissimi Ferguson e Latimer, dominatori della sezione ritmica e della magia della 6 corde (soprattutto in sede di arpeggio) e chiudendo con Ward, il meno appariscente dei quattro ma comunque più che degno complemento. Il cantanto è tutto sommato discreto (anche se non è sicuramente la prima cosa che balza alle orecchie) ed è suddiviso, in assenza di un vocalist “professionista”, fra Doug, Peter e Andy, ultimi due che si prendono anche la briga di essere i maggiori compositori cameliani (sul disco  non sono presenti i crediti delle song, tuttavia si sa che le track 3,4,5 e 1, quest’ultima con l’ausilio di Ward, sono opera del chitarrista, mentre Bardens si riserva la scrittura della seconda, sesta e settima traccia). Come già anticipato nell’ultima parentesi, le canzoni presenti su Camel sono sette, e vedono come portabandiera la pirotecnica “Slow Yourself Down”. Subito si capisce che qui il comandante è il tastierista, che ci abbacina con una intro d’altri tempi per poi improvvisare e spadroneggiare nelle retrovie. Sostanzialmente la descrizione di questo mid tempo dai tratti decisamente peculiari potrebbe finire qui, mi basta aggiungere una batteria stavolta  sopra le righe e un iniziale mutismo della 6 corde che però esplode più in là, con un lungo e pirotecnico assolo (sempre accompagnato dalle keyboards, loro stesse autrici di un magnifico e forse ancora più importante solo, su stesse sonorità e scale, seppur con stili diversi, dei Deep Purple), assolo decisamente originale e dal raro tocco. Le due parti strumentali sono talmente lunghe da riuscire a chiudere la song, che è seguita dalla dolcissima ed emblematica “Mystic Queen”, lento dotato di pura magia. Aperto da semplice ma bellissimo arpeggio, il cantato (stavolta ottimo quando presente) e le tastiere ci prendono per mano verso un mondo magico, capace di donare relax a chiunque ma anche, in alcuni spezzoni, di tenere in allerta. Anche qui le parti solo suonate sono moltissime, e forse si tratta di un bene. Più incalzate delle prime due è “Six Ate” (si sente subito la differenza fra il songwriting di Barden e quello di Latimer), lunga ed incisiva (sempre termine da prendere con le pinze e nel contesto) strumentale che riesce a fare dei cambi di tempo il suo punto di forza. Che essi siano prevedibili (qualcuno in effetti è scontato) o no risultano comunque ottimi. Nessuno strumento spicca sull’altro, ma i quattro si fondono perfettamente in un melodioso tutt’uno. Bellissimo ed “esplosivo” l’attacco di “Separation”, che poi si sviluppa in un brano decisamente melodico ed allo stesso tempo brioso, fondato sul primo vero riff chitarristico finora incontrato. E’ vero che la chitarra è solo una parte della song, ma stavolta è senza dubbio l’elemento dominante. A parte il notevole cambio di tempo (seppure brevissimo) che vede protagonista qualche secondo di tastiera, la sublimazione della song avviene nel tratto finale, con la guitar a fare sfracelli. Che dire di “Never Let Go”? Partiamo dal fatto che presenta l’arpeggio più dolce e bello di tutto l’album, proseguiamo dicendo che tale arpeggio è decisamente depistante, in quanto potrebbe portare a pensare ad una ballad, che invece la song non è nella maniera più assoluta. Abbiamo al contrario un componimento piuttosto incalzante, con singoli momenti di grande pathos. Qui come prima vi è l’assoluto dominio della 6 corde (come non può non essere in una canzone composta da un chitarrista), seguita per l’occasione da un eccellente basso. Discreta la voce di Bardens, che si esibisce solo qui, lasciando eseguire le altre parti vocali da Latimer (su Slow Yourself… e Separation) e Ferguson (per me il miglior vocalist del lotto, si espone su Mystic Queen e Curiosity).Proprio “Curiosity” è la prossima traccia, l’ultima contenente parti vocali. La partenza è lenta e molto controllata, poi si sale di tono e di velocità, tenendo però ancora un certo autocontrollo. Molto “tonde” le parti di chitarra che complementano un pianoforte protagonista assoluto (gli altri strumenti si sentono perlopiù nel ritornello) ma che non riesce, non del tutto, a far decollare il prodotto finale, cosa che rende la song, nel complesso, forse la più più noiosa del platter, pur mantenendosi su buoni livelli. Seconda strumentale, commiato di questo esordio, è “Arubaluba”, perfetto e lungo sunto delle capacità compositive ed esecutive dei Camel, nonchè uno dei lavori più ricchi di avvenimenti musicali ed improvvisazioni mai composti dalla band. Ancora una volta sono passati i 40 minuti e il lettore esaurisce un album (del quale potete trovare anche il remaster contenente, oltre alle già citate song (suonate un po’ più velocemente rispetto alle versioni originali), anche le bonus track “Never Let Go” (in versione singolo) e “Homage to the God of Light”, buoni pezzi che però non incidono sul giudizio complessivo) che sicuramente non ha mancato di regalare sorprese ed emozioni. Secondo me il miglior prodotto dei Camel rimane “Mirage”, non posso però negare che questo Camel gli si avvicina, ed è ulteriore testimonianza della bravura di questi quattro grandi artisti, soprattutto di uno di loro, che non c’è più e al quale mi sento di dedicare la recensione. Parlo ovviamente di Peter Bardens, spentosi nel 2002, riposa in pace, perché gli aficionados non ti dimenticheranno mai.

Riccardo “Abbadon” Mezzera

1) Slow Yourself Down
2) Mystic Queen
3) Six Ate
4) Separation
5) Never Let Go
6) Curiosity
7) Arubaluba
 

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