Recensione: Cast In Stone

Di Roberto Gelmi - 23 Febbraio 2018 - 10:00
Cast In Stone
Band: Royal Hunt
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2018
Nazione:
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75

I hear the thunder rolling so close yet far away,
 the sky reflects all shades of grey
The lightning strikes, igniting my footprints
on the ground… is it too late to turn around?

(“A Million Ways to Die”)

Quattordicesimo studio album in quasi trent’anni di onorata carriera per il gruppo del tastierista russo Andre Andersen, di nuovo in coppia (da circa un settennio) con l’ugola d’oro D.C. Cooper. Non stiamo parlando di una band con pretese di innovazione, quello che i fan si aspettano è semplicemente un disco di poco superiore alle due precedenti uscite in studio, dopo due ennesimi live album. In questo senso convince l’artwork, con un drago puntuto in primo piano, uno dei più invitanti proposti dalla band da anni a questa parte. Chiaro, dunque, l’intento di proporre un full-length quadrato e fedele al sound più rappresentativo del gruppo. Il platter esce per NorthPoint Productions, label indipendente proprietà della stessa band, che per il mercato giapponese si affida invece alla King Records.

Andersen commenta il lungo periodo di gestazione del disco in questi termini:

“This album took a while to complete […] As a result all songs on the album are solid and well crafted, showing every aspect of Royal Hunt today: originality, catchy hooks, strong melodies, great musicianship and larger-than-life production.
(Questo album ha richiesto un bel po’ di tempo per venire completato. […] Come risultato tutte le canzoni dell’album sono solide, ben rifinite e mostrano tutti gli aspetti degli attuali Royal Hunt: originalità, idee accattivanti, melodie robuste, grande tecnica a produzione fuori dal comune.”)

Sempre con la modestia che lo caratterizza il mastermind spende qualche parola anche circa quest’ultimo punto, ossia la produzione, spesso tallone d’Achille dei nostri:

“On that – the production – we definitely did quite a job: all the vital recorded parts were done in analog as well as the final mixing/mastering so there´re no “loudness wars” in-sight; no brickwall limited, over-compressed, lifeless wall of sound… the album breaths just like a real rock album should.”
(Circa questo punto – la produzione – abbiamo davvero fatto un enorme lavoro: tutte le parti vitali registrate sono state fatte in analogico così come il mixing/mastering finale in modo che non ci fosse in vista alcuna “loudness war”; nessun muro sonoro ipercompresso e privo di anima… l’album ha il respiro di un vero album rock.)

Iniziamo l’ascolto dei cinquanta minuti che compongono il platter, divisi in nove tracce dal minutaggio spesso vicino ai sette minuti, e constatiamo se le cose stanno davvero così o meno.
L’opener, “Fistful of Misery” è una piacevole scoperta, un mid-tempo con un D.C. Cooper in spolvero e un refrain semplice ma orecchiabile; Anderson non vuole strafare, le parti di batteria scandiscono lo svolgersi del brano, che regala anche una breve parte solistica. Hammond all’avvio di “The Last Soul Alive”, ma ci sono anche parti ritmiche in tremolo picking e gl’immancabili unisoni. A metà del pezzo oltre agli acuti di Cooper, è sempre un piacere ritrovare il sintetizzatore “energizzante” di Anderson. Tutto prevedibile, vero, però fin qui l’album scorre senza forzature e convince maggiormente rispetto ai precedenti full-length; sembra che i nostri abbiamo deciso di riscoprire l’anima del gruppo che fu, puntando sulla semplicità e sulla limitazione d’eccessivi barocchismi. In “Sacrifice” scaldano il cuore le note di basso fretless all’avvio, insieme ai tasti d’avorio e parti semiacustiche di chitarra. D.C. Cooper è più istrionico che mai (stupisce la sua forma di salute), le seconde voci marchio di fabbrica ci riportano al passato nostalgico della band danese, che, c’è poco da dire, sa ancora realizzare buone canzoni. Pezzo più lungo in scaletta, “The Wishing Well” inizia con una cavalcata prepotente e poi si perde nel suo lungo dipanarsi, con una seconda parte a tratti discontinua, ma comunque è apprezzabile l’uso del doppio pedale. La title-track, invece, è la composizione più effimera, una strumentale da tradizione dei Royal Hunt, che non delude nel suo sfoggio divertito di tecnica.
Gli ultimi quindici minuti del platter si compongono di tre brani senza cali qualitativi da segnalare. Ispirata “A Million Ways to Die”, più sostenuta “Rest in Peace”, bellissima “Save Me II” (già inserita nell’ultimo album celebrativo).

In definitiva un album che si lascia ascoltare e garantirà un buon numero di vendite al gruppo danese, che rilancia il proprio trademark incurante degli anni che passano. Spiace solo sconfessare Andersen circa le scelte di produzione: ancora una volta non possiamo dirci entusiasti del mixaggio, soprattutto le parti di batteria rimangono penalizzate. Per il resto lasciatevi trascinare dall’ennesima pagina della discografica targata Royal Hunt, andate sul sicuro.

Roberto Gelmi (sc. Rhadamantyhs)

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