Recensione: Cast The First Stone

Di Andrea Poletti - 27 Gennaio 2017 - 3:33
Cast The First Stone
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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80

Sette come i peccati capitali, come i sigilli, i re di Roma, i mari, il chaos cabalistico e gli album degli Hour of Penance ad oggi; tre anni di silenzi dove la macchina da guerra nostrana ha avuto un solo cambio in line-up, con l’ingresso di Davide Billa (Septical Gorge, Antorpofagus etc.) alla batteria e poco altro. Per caso o per volontà acquisita ci ritroviamo in mano un album dove la band ha trovato la forza e la voglia di andare a riprendere certe sonorità del passato, attraverso un concept intenso e sempre attuale. Il contrasto, la battaglia a livello culturale e ideologico che ha da sempre investito due continenti uniti dalle terre emerse, che per forze di causa maggiore, negli ultimi anni stentano a trovare una via comune di dialogo. L’Europa civilizzata, che vuole rimanere al passo coi tempi dove la gratificazione dell’uomo moderno viene data dai successi in ambito prettamente lavorativo e sociale, si scontrano con i canoni culturali del medio oriente dove pur cercando di andare avanti si tende a subordinare il tutto ad un ipotetico ordine religioso superiore. Gli ultimi anni ci hanno sommerso di attentati, rivendicazioni e proclami volti al solo scopo di distruggere le ideologie di questo o quell’altro popolo, la guerra esiste e il “Je Suis Charlie” è un manifesto per le masse pronte ad aizzare la propria ignoranza senza la cultura dovuta. “Cast The First Stone” deve essere valutato non solo sotto l’aspetto musicale, fondamentale alla riuscita di un disco, ma anche per quello che è il messaggio che vuole fornire alla fine dell’ascolto; ognuno è libero di vivere la propria verità, siamo e saremo sempre popoli distanti a livello ideologico e la guerra non finirà facilmente.

Gli Hour of Penance sono cresciuti in maniera esponenziale negli ultimi album, tanto da potersi vantare di non aver mai sbagliato un colpo, personalmente li seguo dal grezzo e primordiale “Pageantry for Martyrs”, da quel casuale live in compagnia dei Krisiun all’ormai dimenticato Transilvania, datato undici anni addietro. Questa specifica mi serve a sottolineare come il riscontro fatto di questo disco è fatto su quelle sensazioni e oggettive migliore viste in undici anni di trascorsi, dove album dopo album e cambi in formazione la qualità non ha mai tardato ad arrivare, alzando il tiro costantemente, proponendo nuove soluzione volta dopo volta. Certamente le differenze sostanziali ad ogni uscita hanno portato col tempo ad ottenere una maggiore melodia all’interno delle diverse tracce, riuscendo sempre a mantenere la brutalità che li porta a diventare unici e inconfondibili entro centinaia di altri gruppi clone. La certezza che sino a quando a capo della ciurma Giulio riuscirà a portare le sue idee non vi sarà alcun problema di qualità effettiva è risontrata anche in questa occasione. “Sedition” è stato il vero nodo di svolta nel sound del gruppo, ma ciò che ha sorpreso maggiormente dopo l’uscita di “Regicide” è stato il contrasto di opinioni che vedeva alcuni esseri infliggere sentenze del tipo “ora stanno copiando Nile e Behemoth, hanno perso la loro creatività”, magari l’ultimo disco non sarà il migliore mai composto dal combo, a tratti leggermente prolisso, ma la qualità è rimasta sempre su alti regimi, oggi come da prassi la storia è differente. “Cast The First Stone” è identificabile quale una sorta di ritorno alle origini, basta l’iniziale ‘XXI Century Imperial Crusade’ per ritrovarsi dentro la sfera compositiva di album quali “Paradogma” o in parte “The Vile Conception”, in antitesi la ‘Titletrack’ rimette sul piatto quelle melodie più aperte ed atmosferiche tipiche dell’ultimo periodo. Come a giocare su chiaroscuri dove l’unione di due mondi distanti mai come oggi vicini diventa imprescindibile; prendere il proprio passato, farne insegnamento e cercare di modernizzare il suono entro quell’essenza che oggi il nocciolo creativo degli Hour of Penance. Questo ipotetico gioco di contrasti lo si riesce a riscontrare lungo tutta la durata del disco attraverso composizioni come ‘Burning Bridges’ e ‘The Chains of Misdeed’ che tendono a mostrare il lato più brutale e intransigente, quel pugno in faccia che ci si aspetta e rigorosamente arriva con la combinazione di buon gusto e tecnica che eleva la qualità dell’album. D’altro canto, anche se non in completa opposizione abbiamo ‘Iron Fist’, ‘Damnatio Memoriae’ e la conclusiva ‘Wall of Cohorts’ che inseriscono molte parti più epiche e atmosferiche per completare la gamma cromatica ad oggi insita nei i nostri; un altalena di sensazioni che merita solamente di essere ascoltata in silenzio. La produzione rispetto al recente passato porta una versione leggermente più grezza e diretta, più schietta, quasi a voler accentuare quello che il concept lirico di fondo dove la crudeltà e la violenza sono regine indiscusse; l’idea che lo studio dell’intera uscita sia volto ad un voglia di collegare ogni aspetto visivio, sonoro e lirico è quasi impercettibile ma riscontrabile sotto pelle.

Cosa altro aggiungere se non che ogni amante del death, del brutal, del tech e di ogni qualsivoglia forma di estremismo deve per forza dargli un ascolto, andando non solo ad apprezzare il comparto prettamente sonoro, ma cercare di addentrarsi al meglio in questo lavoro che a dispetto delle apparenze richiede attenzione e continuità. Settimo sigillo, che a tutti gli effetti ci riporta gli Hour of Penance al massimo delle aspettative, nessuna attesa è stata tradita e non possiamo fare altro che accogliere questo capitolo con gli applausi del caso. Orgoglio Italiano.

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