Recensione: Chapter IV: The Reckoning

Di Stefano Usardi - 15 Settembre 2016 - 0:00
Chapter IV: The Reckoning
Band: Signum Regis
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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65

A due anni dal precedente “Exodus” e a breve distanza dall’EP apripista “Through the Storm” si rifanno vivi gli slovacchi Signum Regis, prolifica band che in meno di una decade di attività ha già all’attivo quattro album e un EP. La proposta del gruppo è un classico power metal melodico di stampo europeo tecnicamente inappuntabile e dall’impatto immediato, spruzzato qua e là di inserti eroici ed altri più tendenti all’hard-rock, suonato ottimamente e confezionato altrettanto bene ma che non si discosta di un millimetro dagli stilemi e dalle sonorità tipiche di questo genere, e che pertanto finisce per restare impantanato nell’immenso acquitrino dei “soliti dischi power”. Se mi limitassi ad una stringata ed asettica sintesi la recensione potrebbe essere già finita, ma visto che una trattazione così lapidaria suona fin troppo irrispettosa per un prodotto tutto sommato ben eseguito (senza considerare il fatto che io sono un tipo logorroico per natura), cercherò di raccontare in modo più approfondito quest’ultima fatica targata Signum Regis.

Apre le danze “Lost and Found”, classica opener da disco power che aggredisce l’ascoltatore con una batteria agile, chitarre e tastiere arrembanti, un basso che sostiene il gruppo con sudore e sangue e una voce potente e sporca al punto giusto, supportata da cori melodici ma che si tengono generalmente nelle retrovie. “The Secret of the Sea” rallenta i ritmi per puntare su un andamento più scandito e anthemico, con riff quadrati e un uso delle tastiere più atmosferico, cui si aggiungono i soliti cori per sostenere Mayo dove serve. Una chitarra rocciosa introduce “The Voice in the Wilderness” lasciando intuire un altro pezzo aggressivo e granitico: intuizione confermata solo in parte, poiché se è vero che il pezzo si dipana attraverso riff mediamente più corposi e distorti di quelli sentiti finora, supportati da un ottimo lavoro di Ronnie al basso, è altrettanto vero che il tutto si stempera in concomitanza col ritornello, quando cori e tastiere prendono possesso della canzone diluendone un po’ la carica aggressiva. L’assolo molto hard-rock prelude una seconda parte più sinfonica e la classica alzata di tono finale, che chiude un pezzo comunque interessante e ci traghetta verso “Prophet of Doom”, traccia simile ma dal respiro più oscuro e maligno, che si fa a sua volta più pomposo ed eroico nel ritornello.
The Magi” parte in pompa magna dispensando cori senza soluzione di continuità per tutta la sua lunghezza, inframezzati a rapide incursioni di tastiera: non un gran pezzo, in realtà, secondo me troppo dominato dai suddetti cori e poco incisivo. Un pelino meglio va con la successiva “Quitters Never Win”, traccia molto più canonica ma scandita da riff grossi e dal sapore di hard-rock, come si evince anche dalla parte centrale e, soprattutto, dal finale. Con “Tempter of Evil” si torna a puntare su melodie semplici e su un andamento più quadrato, costruendo la canzone su tempi medi per lasciare la strada libera a cori pomposi e tastiere solari, su cui si innesta una bella sezione solista ad opera di Filip e da Roger Staffelback, già ospite in “The Magi”. “When Freedom Fails” pigia leggermente sull’acceleratore, ma basta arrivare al ritornello per tornare a respirare l’afflato pomposo della traccia precedente. L’intermezzo che precede l’elegante incursione solista di Filip sembra scritto apposta per attirare l’attenzione durante i concerti, salvo poi tornare di gran carriera nel mondo dei cori trionfali giusto in tempo per la conclusione del pezzo. “The Kingdom of Heaven”, introdotta da una tastiera maligna e un riff roccioso e distorto, torna all’incedere prepotentemente hard-rock che già aveva contraddistinto “Quitters…”, infuso però di un alone solenne e quasi sacrale che dona maggiore personalità al pezzo e che sfocia in una bella sezione strumentale dall’appeal eroico.
Chiude questo quarto capitolo del gruppo slovacco “Bells are Tolling”, che parte malinconica e struggente anche grazie ad un’ottima prova di Mayo, meno tirato e più espressivo, e ad un uso più ricercato dei cori. La sorpresa arriva al minuto 3:15, quando quella che sarebbe potuta essere la classica ballatona romantica e un po’ stucchevole posta in chiusura cambia direzione e, grazie ad un riff pesante e quadrato, si trasforma in un brano più energico e sfaccettato, impreziosito da un assolo elegante e gagliardo sebbene non particolarmente originale; nel finale si torna a calcare il terreno della melodia di apertura, energizzata dal resto degli strumenti e dai cori che già abbiamo incontrato per tutto l’album.

In definitiva ci troviamo dinnanzi ad un lavoro, come già scritto in apertura, molto ben suonato e confezionato da persone che sanno bene cosa vogliono, e pur non presentando al suo interno degli highlights indiscussi si mantiene su un livello qualitativo più che buono grazie a un’eleganza di fondo che molti altri gruppi non possiedono. Quello che manca qui (e che penalizza un  po’ il voto finale) è, a mio avviso, ciò che manca al 90% dei dischi di questo tipo, e cioè la personalità e la ricercatezza necessarie per svettare sopra la massa ribollente dei “soliti dischi power” di cui è ormai saturo il mercato. Pertanto se non siete particolarmente interessati all’originalità (o sensibili alla sua mancanza) e in un album power metal cercate solo una piacevole ed energica distrazione, concedete un ascolto a questo Quarto Capitolo: secondo me se lo merita tutto.

Beh, dai: alla fine qualcosa da scrivere c’era eccome!

 


 

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