Recensione: Citizen

Di Francesco Maraglino - 8 Novembre 2015 - 9:34
Citizen
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2015
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
68

Il polistrumentista (con predilezione per il basso) Billy Sherwood ha aleggiato sovente e soprattutto in area Yes. Ha partecipato, infatti, tra l’altro, ai lavori di album come Open Your Eyes e The Ladder, e, proprio in questo periodo, ha sostituito nella celeberrima band inglese il recentemente scomparso e altamente compianto Chris Squire.
Inoltre, il musicista statunitense, oltre ad aver esordito con i World Trade, ha dato i natali pure a formazioni e progetti quali CIRCA (con Tony Kaye), Conspiracy (con Chris Squire) e YoSo (con Bobby Kimball, ex Toto), ed è autore di un paio di lavori da solista.
Oggi, grazie agli inarrestabili tipi della Frontiers Music, Sherwood si espone ancora una volta in proprio, e licenzia un concept-album dal titolo “Citizen”.
Concept-album, sì, come in una delle più antiche tradizioni del prog: il tema portante, in questo caso, è quello di un’anima perduta (il Cittadino, appunto) che si reincarna in vari periodi della storia del mondo. Il protagonista, dunque, vive con i propri occhi eventi epocali quali la fine dell’Impero Romano e la Seconda Guerra Mondiale.
Per raccontare questa impegnativa storia, Sherwood ha fatto tutto da sé. O quasi. Infatti, pur occupandosi in prima persona del canto e di quasi tutti gli strumenti, il mastermind di Citizen ha chiesto in realtà l’aiuto di un folto gruppo di amici, che hanno prestato il proprio strumento, ed in qualche caso la voce, ad un brano ciascuno.

Lo incipit del disco è assai interessante: The Citizen, difatti, evoca grandiosi scenari immaginifici e sinfonici ed atmosfere evocative. A disegnarli, ci sono tastiere magniloquenti, compreso l’hammond di Tony Kaye che svisa e dona un tocco inevitabilmente vintage, una voce vagamente gabrielliana ed un incisivo basso, suonato proprio da Chris Squire (probabilmente qui alle prese con la sua ultima opera incisa).
Man & The Machine si muove, invece, in un ambiente sonoro tra il sognante e l’elettronico come in certo post-prog ottantiano con echi wave alla Peter Gabriel, ma che non decolla e non affascina del tutto, salvo che nell’inquieto contributo di chitarra dello straordinario Steve Hackett.
Però Just Galileo And Met, una ballata dalle reminiscenze folk- prog, ci sorprende piacevolmente anche con la inattesa presenza del cantante solista, quel Colin Moulding che farà tornare alla memoria di chi ha vissuto l’era della new wave gli splendori dei grandissimi XTC.
Di seguito, i climi tendono ad assestarsi su un tono in fondo monocorde, più che altro disteso e dilatato, che nei momenti più riusciti affascinano, mentre altrove, dove la grana compositiva si fa più tenue, tendono a tediare.
Se Empire, ad esempio, che vede ospite Alan Parsons, insaporisce l’aria ancora una volta dilatata e distesa con qualche chiaroscuro pop, e pure con passaggi più nervosi ed impreziositi dal violino di Jerry Goodman nel finale, invece A Theory All it’s Own, sorta di uptempo electroprog, appare di gran lunga meno sapida.
E ancora: Age Of The Atom vede esibirsi ai tasti d’avorio l’ottimo Geoff Downes, ed in effetti in questa occasione l’ascoltatore potrebbe ritrovare echi dei migliori Asia, se non fosse che il brano si gioca gli spunti dati da intro epiche di tastiere e un motore regolato a tratti su un uptempo pop/prog/pomp, riassestandosi nelle solite atmosfere che predominano nel full-length.
No Mans Land, invece è  lineare ed orecchiabile ed offre lo scenario per il contributo pregevole delle sei corde del “profondopurpureo” Steve Morse.
In controtendenza, ecco invece Escape Velocity, che offre una botta di ritmo in cui le caleidoscopiche tastiere di Jordan Rudess dei Dream Theater inoculano una sana iniezione di adrenalina.
Da citare, ancora, Written In The Centuries, in cui il nuovo cantante della band di Close To The Edge, Jon Davison, conferisce un piacevole umore Yes, ad un brano prog articolato sebbene  coerente con il trend dominante di Citizen, e The Great Depression, cadenzata e cinematografica con al piano sua maestà Rick Wakeman.

Insomma, l’ultima fatica di Billy Sherwood, offre all’ascoltatore oltre un’ora di progressive melodico, venato a tratti di elettronica, pregevolmente eseguito e, certamente, gradevole, ma che, nei momenti meno brillanti sul piano del songwriting, può tendere a stancare, nel complesso, l’ascoltatore desideroso di paesaggi sonori maggiormente variopinti.

Francesco Maraglino

Ultimi album di Billy Sherwood

Genere: Progressive 
Anno: 2015
68