Recensione: Clandestine Sacrament

Di Stefano Santamaria - 20 Aprile 2017 - 0:00
Clandestine Sacrament
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2017
Nazione:
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60

Torna, con una delle sue molteplici facce, Matron Thorn, musicista attivo già negli Andacht, Benighted in Sodom, Crowhurst, Præternatura, Ævangelist e Midwinter Storm. Ci scusiamo se ci siamo dimenticati di qualcosa, ma il passo del polistrumentista è davvero arduo da tenere, e forse qualcosa ci siamo persi via via per la strada. 

Nello caso specifico presente, la band si chiama Death Fetishist, e vede coinvolto anche il batterista G. Nefarious. Al di là di questa presenza, lo stile alienante, per certi aspetti psichedelico e caotico, si rispecchia perfettamente con molte delle realtà di cui sopra, e che vedono unico protagonista l’artista statunitense.

Tantissime uscite discografiche, in brevi periodi di tempo, in cui certamente intravediamo dissonanze, ambientazioni angoscianti e brani destrutturati alla follia. “Clandestine Sacrament” non si discosta per nulla da tale trend, e senza aggiungere nuove idée, ci martella addosso urla, disperazione e distruzione a metà tra black, doom ed intricati suoni di sottofondo elettronici. 

Non mettiamo certo in dubbio lo stile di un compositore che ha personalità, ed è riconoscibile al primo ascolto. Quel che ci perplime è la sovrabbondanza di tutto questo materiale, e la ripetitività di una formula che, se meglio pensata e maturata, certo risulterebbe più efficace. 

Invece, in tal caso come anche in alcuni altri del passato, tutto sembra fatto sin troppo velocemente, quasi ora ci si sia trovati di fronte ad una catena di montaggio da cui vengono buttati fuori brani che poi, a conti fatti, risultano simili l’uno all’altro. Così, i vari sentimenti, emozioni ed immagini, restano macchie poco visibili, cloni di un’idea che ci risulta deflazionata ora, e dalla quale ci aspetteremmo sinceramente di più.  Vorremmo che Benighted in Sodom e Ævangelist tornassero al centro dell’attenzione di Matron Thorn, magari prendendosi più spazio e tempo. 

Chiaramente non ne vogliamo fare un colpa all’americano, ma resta il fatto che in pochi anni siano stati dati alla luce un numero impressionante di full-lenght, il cui denominatore comune è però sempre stato lo stesso, così da lasciare un po’ di amaro in bocca. 

Stefano “Thiess” Santamaria

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