Recensione: Clinic of Maleficent

Di Stefano Santamaria - 14 Febbraio 2017 - 0:00
Clinic of Maleficent
Band: Ygodeh
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
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72

Enigmatica uscita discografica per i lettoni Ygodeh, progetto formatosi nel 2009 e con alle spalle altre quattro fatiche discografiche, di cui due album veri e propri. L’arcano che naturalmente ci viene difficile svelare è l’intenzione insita nel full-length.

Il lavoro enuncia il verbo del death metal, in chiave però estremamente tecnica, con innesti elettronici e divagazioni progressive. Tutto ciò è condito da un’incontrollata voglia di destrutturare ogni accenno di melodia o filo conduttore, quasi ne recepissimo spunti jazz. Questo dualismo interiore, tra anima progressiva e più sperimentale follia jazz, sembra quasi non voler mai trovar pace, favorendo un caos che, seppur creativo, può diventare indigesto.

Al di là di tali aspetti, restiamo comunque impressionati dalla mole di idee che la band trasmette, sfumature che partono da arrangiamenti orchestrali, e sfociano nel più ferale e tagliente genere della morte. Non esistono punti di riferimento, ma solo creature in movimento  impreziosite da un lato sinfonico. Tutto ciò crea di per sé angoscianti intermezzi che si perdono in gelidi impulsi di cibernetici crescendo. “Ballad Experiment” è l’episodio che incarna tutto ciò, seguito poi da “Clinic Of Maleficent”.

Siamo invasi da insetti che sentiamo camminare sulla nostra pelle, svegliandoci poi d’improvviso e non vedendo nulla alla fredda luce che di soprassalto accendiamo. Incubi, frammenti di ricordi ch si frantumano riflettendo emozioni la cui fonte è lontana, fredda, ma non per questo meno luminosa. Glaciali raggi si proiettano da e con noi, esperienze che ci accumunano a tutti e che in ciascuno ritroviamo.

 L’anima old school dei Ygodeh la si vede in alcune accelerazioni death metal, ad esempio nel finale di “Silent Scream”, e se anche potrà sembrare per taluni desueto, è un ingrediente che impreziosisce e imbarbarisce un disco altrimenti eccessivamente schiavo della sperimentazione. Quel che è certo è che gli artisti abbiano personalità e competenza, e se sapranno meglio convogliare la marea di spunti geniali ivi riscontrati, magari dando una “logica follia” ai loro brani, potrebbero fare il salto di qualità che ci auguriamo.

Attenzione, non vogliamo bocciare “Clinic of Maleficent”, i più esigenti saranno attratti inevitabilmente da un full-length di tale portata, ma resta un po’ l’amaro in bocca per l’indefinitezza di molteplici passaggi. 

Stefano “Thiess” Santamaria

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