Recensione: Codex III: Crown of the Mind

Di Daniele D'Adamo - 15 Novembre 2016 - 17:47
Codex III: Crown of the Mind
Band: Hoath
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2016
Nazione:
Scopri tutti i dettagli dell'album
68

A distanza di una dozzina di anni dalla doppietta “Codex I: I.R.E.” (demo, 2003) / “Codex II: K.E.T.H.E.R.” (full-length, 2004), giunge sugli scaffali, finalmente, “Codex III: Crown of the Mind”, in chiusura del trittico concepito dai finlandesi Hoath.

Attualmente la lineup è fissata nelle persone di vHolm (voce e batteria) e Shatraug (chitarra e basso) ma, come loro stessi affermano, le persone non sono importanti, in Hoath. È Hoath, il progetto, ad avere rilevanza. Un disegno che comporta l’utilizzo di testi che involvono argomenti lontani dei cliché del metal estremo; occupandosi invece di canti rituali e citazioni, di linee guida che obbediscano a principi fondamentali quali la fede, la propria forza vitale e la saggezza. Un approccio senz’altro desueto, soprattutto se trattasi di formazione scandinava, altrimenti impegnata nei soliti «fuck christ/legions of hell» (lett.).

Non è solo l’aspetto testuale, però, a essere strano, negli Hoath. Pure la musica non fa eccezione all’originalità del piano elaborato da vHolm e Shatraug. L’ambito è quello del death metal, su questo non c’è dubbio, tuttavia le intersezioni perpendicolari che attraversano il sound dei Nostri non sono poche. Prima fra tutte, quella del doom, assolutamente presente e vivo come nell’ossianica, sulfurea ‘Proclamation of the Crowned and Conquering Child’, baritonale proclamazione che segue un incedere possente ma lento, sinuoso, letale. Poi, seppur in misura minore, si può cogliere, stavolta in senso lato, il background di tipo puramente heavy metal o, semmai, speed (‘To the Mother of Abominations’).

Quel che importa alla fine è il risultato e, a parte contaminazioni varie, lo stile degli Hoath appare più che sufficientemente personale. Nella sua totale fedeltà alla più rude scabrezza, il sound di “Codex III: Crown of the Mind” pare quello di un rombo continuo, di un tuono soffuso. Un sound possente, gigantesco, rabbioso; ricco di atmosfera, tendente verso un mood tetro e oscuro, ma non malinconico né triste. Un umore… marrone.

La pressione esercitata dal duo di Lappeenranta è notevole, benché a muovere gli strumenti siano solo in due, appunto. L’opener-track, ‘Embodiment of Ultimate Existence’, per esempio, è un chiaro esempio di questa forza, di questa energia. Non tanto in occasione dei belluini blast-beats, bensì in occasione dei più semplici quattro quarti, ove la dinamicità del ritmo esplode in un convulso e iracondo tormento timpanico, alimentato dai furibondi giri del basso di Shatraug. Una specie di vortice… il moskenesstraumen… terrore dei navigatori norvegesi… With the Lightning of Eye’.

Se da un lato questa linearità ritmica si configura come un centro di spinta poderoso, in grado di rovesciare un carro armato; dall’altro si rivela il difetto principale del platter, minandone alla base le possibilità di variazioni. In effetti, fra la song sopra citata e quelle successive, ‘Crown of the Mind’ e ‘Behold the Soul (Profane Research)’, la differenza non è poi tanta.

Ciò significa, per chiudere, che, pur essendo più che discreta nel suo complesso, l’idea musicale degli Hoath ha pochi margini di manovra da una linea troppo… rettilinea.

Difficile aspettarsi delle sorprese, insomma, non appena “Codex III: Crown of the Mind” viene mentalmente inquadrato.

Daniele D’Adamo

Ultimi album di Hoath