Recensione: Codex Omega

Di Gianluca Fontanesi - 11 Settembre 2017 - 0:02
Codex Omega
Band: Septicflesh
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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70

Se c’è una band che in questi ultimi anni ci ha abituati non bene ma benissimo sono i Septicflesh. Il loro death sinfonico e orchestrale, col passare del tempo, è diventato un’entità unica, personale e di fondamentale importanza per gli ascoltatori di musica estrema, guadagnando consensi e proseliti in ogni angolo del mondo. Successo quindi meritatissimo per i greci, che tornano alle luci della ribalta col loro decimo album in studio, Codex Omega. Uno dei perni sul quale verterà la valutazione dell’album è senza ombra di dubbio il cambio del batterista: il difficilissimo compito di sostituire Fotis Benardo viene affidato all’austriaco Kerim “Krimh” Lechner, e il sound dei Septicflesh prende fin da subito una piega diversa piuttosto percettibile. Ma andiamo con ordine.

A Dante’s Inferno, titolo che rimanda al buon videogioco di Visceral Games, è affidato il compito di aprire l’album; si dovrebbe mandare il master ai Wintersun per spiegare loro che il metal sinfonico lo si riesce a produrre bene già da almeno un decennio e senza troppi proclami. Chiusa la parentesi, l’assalto qui è frontale e senza troppi giri di parole; il pezzo è veloce e brutale e il growl di Seth è sempre tra i migliori in circolazione. Quello che inizia a scricchiolare in casa Septicflesh è la costruzione dei brani a livello strutturale. Partiamo dal presupposto che dietro le pelli ora c’è un batterista death, di conseguenza la musica dei greci ha tutta una serie di caratteristiche e deve fare i conti con aspetti “nuovi”, iniziando da un scrematura dei pattern fino a una prestazione più semplice e d’impatto. Quasi tutto il disco verte su quei 4-5 tempi di batteria estremi: 2/4, battere, blast beat e qualche lento standard; vi sono molti punti in cui i cambi di tempo non sono amalgamati bene ma risultano improvvisi e un po’ buttati lì, nel dubbio mettiamoci un tupa tupa e tutto fila. La prestazione della batteria è quindi dritta e lineare, con pochissimi accenti e, alla lunga, finisce per togliere sicuramente qualcosa alla proposta dei Septicflesh. Fotis era assolutamente di un altro pianeta. Il brano comunque non è male e apre il disco in maniera più che dignitosa, rivelandosi alla fine come uno tra i migliori del lotto. 3rd Testament (Codex Omega) ha un incipit che ricorda vagamente quello di Lepers Among Us dei Dimmu Borgir; molto buono il tema con le chitarre armonizzate e si inizia anche a percepire come le orchestrazioni siano state più centellinate rispetto ai lavori precedenti, lasciando più spazio a chitarre e impatto. Buono e infernale il finale. Portrait Of A Headless Man gode di un buon inizio che viene subito smorzato per poi ripartire senza una logica apparente; spunta un 2/4 incollato lì e si stacca in maniera repentina in favore di un altro 2/4. Parte una melodia e anche qui coitus interruptus in favore di un rallentamento; la tensione in questo frangente è gestita piuttosto male e i troppi stacchi rendono il tutto un’occasione sprecata. Peccato. Martyr inizia in maniera acustica per poi sfociare in uno dei riff migliori dell’album; inutile dire che arriva un momento arioso a spezzare il tutto e poi per fortuna lo si riprende. L’alternarsi alla fine risulta buono, seguito da un ponte scolastico e un cambio di umore drastico proveniente dall’ennesimo stacco un po’ dubbio. Nonostante la slegatura, la seconda parte del pezzo non è affatto male, anche se il tutto, con un miglior sviluppo, avrebbe potuto essere un vero trionfo. Enemy Of Truth è un buon brano, finalmente ben legato e con un’ottima progressione e gestione degli sbalzi d’umore, almeno nella prima parte. Poi iniziano i cambi repentini e il tutto un po’ ne risente; c’è sempre questa urgenza e questa smania dello stacco che è inspiegabile!

La seconda parte dell’album inserisce ciò che finora è stato inesistente: le clean vocals. Sono sempre state poche nel sound dei greci, ma finiscono inevitabilmente per migliorare la qualità del disco risultando un legante fondamentale per i brani. Provate a sentire Dark Art per rendervene conto: c’è un’introduzione, una strofa, una parte ariosa dove si prepara il terreno e una clean. Ci voleva molto? Nonostante si stacchi molto centralmente, l’identità del brano è mantenuta benissimo e si porta finalmente il risultato a casa! Our Church, Below The Sea gode della stessa fortuna: è un brano cupo e oscuro, finalmente lineare e senza stravolgimenti inutili messi a casaccio e le clean sono poste come valore aggiunto a cementare la costruzione. Ottimo risultato, e Faceless Queen è ancora meglio! Questi sono i Septicflesh che vogliamo sentire! Qui il groove fa da padrone per lasciare poi posto a un ritornello arioso e piuttosto ben riuscito; molto bello il finale introdotto dalla chitarra acustica. The Gospels Of Fear è il brano più corto dei dieci proposti ed è abbastanza scolastico e acerbo; avrebbe potuto essere sviluppato meglio per offrire qualcosa di più personale. A questo punto la cassa perennemente a raffica inizia anche a diventare un po’ fastidiosa; un po’ di trama si intravede verso la conclusione ma non basta e la traccia finisce per risultare francamente prescindibile. Conclude la tracklist principale Trinity, che è un altro momento che scorre indolore e senza nulla da segnalare in particolare, tranne una conclusione così così che tutto fa tranne rendere giustizia al disco.

Vi sono altri tre brani per i possessori dell’edizione deluxe di Codex Omega, serviti su un secondo disco: Martyr Of Truth, Dark Testament e la versione orchestrale di Portrait Of A Headless Man. Tre brani totalmente strumentali e di sola orchestra che faranno si contenti puristi e completisti, ma non offriranno nulla di particolarmente allettante per tutto il resto dell’utenza.

Codex Omega non è un brutto disco, anzi, vi sono molte luci su cui fare affidamento: il trademark dei Septicflesh è ben mantenuto, riconoscibile fra mille e il tutto è presentato con la solita perizia artistica (artwork come sempre ad opera di Seth) e stilistica. La produzione e il mix ad opera di Jens Bogren sono un biglietto da visita che significa qualità e suoni di un certo livello. La macchina da guerra inizia però a dare segni di cedimento: se da una parte non stupisce più, e sottolineiamo che forse non deve nemmeno farlo, si intravedono in ogni caso parecchi momenti di stanca a livello compositivo e un songwriting che non è sempre perfettamente a fuoco. Il disco è molto veloce e molto potente, ma spesso si ha la sensazione che questa potenza non sia ben canalizzata e che vada ad assumere le sembianze di uno specchietto per le allodole col fine di nascondere difetti ben più rilevanti. Il decimo album dei Septicflesh è un disco semplicemente normale per loro come è normale la prestazione di tutti i musicisti coinvolti. Mancano qui i guizzi, le trovate e anche qualche idea in più; quelle che ci sono escono sfruttate non sempre bene, a volte sprecate e in altri frangenti proprio buttate alle ortiche. Ci auguriamo che i nostri sappiano trovare la quadratura del cerchio coi prossimi lavori; questo degli ultimi quattro non è il più brutto ma semplicemente il meno bello. Ci può stare.

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