Recensione: Condition Human

Di Marco Giono - 5 Ottobre 2015 - 15:15
Condition Human
Band: Queensrÿche
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2015
Nazione:
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70

Una bambina si protende verso le inferriate. Una nuvola di fumo parrebbe attirarne l’attenzione. Alle sue spalle la mamma, con in grembo un cagnolino e un libro, ci fissa con una curiosità distaccata. Contraccambiamo. L’opera di Edouard Manet intitolata Alla ferrovia del 1873 racconta di un nuovo passo avanti verso la globalizzazione e del desiderio fanciullesco verso una libertà incondizionata; il mio intento di collegare la copertina di Condition Human, nuovo album dei Queensryche, con quella di Manet è certamente un azzardo. Eppure quella bambina ora immersa in un buio primordiale, trascorso quasi un secolo, cerca di nuovo qualcosa, si protende verso l’alto, in fronte a sè spazio e tempo diventano eterni, ogni cosa diventa immobile.

I Queensryche del glorioso passato avevano forse trovato qualcosa, infatti la voce di Tate, spinta dalle partiture di Chris DeGarmo e Michael Wilton, toccava vette insperate nei primi cinque dischi d’esordio (dal 1983 al 1994), fino a Promise Land. Sfiorare il sogno, passare oltre lo specchio è consentito a pochi e a volte per poco tempo. Il ritorno alla realtà è cruento. Non c’è una tempistica per queste cose. Succede e basta. Più o meno velocemente si formano increspature fino a che i vetri si infrangono. Geoff Tate, nel 2012, viene cacciato dalla band che già aveva perso DeGarmo nel 1997. Tutto si complica. Risse verbali a mezzo stampa. Zuffe legali. Tate non conserva diritti del nome della band, ma ottiene i diritti di Operation: Mindcrime (e con eleganza usa quello storico titolo per il nome della sua nuova band). I Queensryche si ricompongono e nel 2013 pubblicano il loro album ononimo che è tale in fondo perché rappresenta anche un nuovo inizio. La voce del neo acquisto Todd La Torre (ha acquisito popolarità perchè dal 2010 al 2013 è stato cantante dei Crimson Glory con cui non ha mai registrato un album, malgrado a suo dire fosse in progetto) sorprende per capacità di muoversi verso l’alto, l’album pur soffrendo leggermente di manierismo e faticando a trovare una sua strada lasciava intravedere a mio modo di vedere un possibile sentiero verso una nuova identità.

Ai nostri giorni il ritorno dei Queensryche è anticipato dall’ombra minacciosa del passato. Infatti Tate anticipa la sua ex band e pubblica The Key. Per usare un eufemismo potremmo affermare che non è un gran che malgrado le varie ospitate di star del metal. Non ci rimane che sperare in Condition Human per difendere la gloria dei giorni passati dal periglioso susseguirsi delle stagioni. 
Senza ulteriori indugi andiamo a testarne le tracce. Si tratta di operazione delicata che vi anticipo richiederà diversi ascolti, perché rispetto al precedente album qui mettono in risalto maggiormente la propria vena progressiva. Mica vero, almeno per le prime due tracce. Il primo brano intitolato “Arrow of Time” è un up-tempo che fa il verso ai Maiden e ricorda quello stile diretto e senza troppi fronzoli del loro disco di esordio intitolato The Warning del 1984.  La seconda traccia intitolata “Guardian” mi fa trasecolare perché quei riff minacciosi in simbiosi a quell’incedere teatrale ricordano non solo il primo Tate, ma sfiorano i Crimson Glory in quel pazzesco incedere su note drammaticamente alte alla John Patrick McDonald aka Midnight (ok, non ho detto che sono uguali). Entrambi due brani riusciti che vedono un La Torre in grado sia di fare il verso a voci storiche del metal sia di mantenere una propria identità. Un inizio davvero ben riuscito, esaltato da suoni dinamici e puliti dovuti probabilmente alla mano di Chris (Zeuss) Harris, uno che oltre ad essere da tempo un fans dei Queensryche ha già lavorato con Rob Zombie, Hatebreed e Soulfly. Muovendoci in maniera non lineare, possiamo trovare altri brani di livello più che buono quali “Eye9” introdotta dal basso nervoso di Eddie Jackson che deraglia in un brano dall’epica oscura mosso dal solito riffing di Wilton e Ludgren, la traccia che segue intitolata “Bulletproof” è scritta invece dal batterista Scott Rockenfield, si muove su un tempo di 6/8 ed è arrangiata alla stregua di un brano pop, ricorda in qualche modo quanto fatto dai Queensryche su Empire. Saltiamo poi alla title-track, il più lungo tra i brani della tracklist, costruito in aperture melodiche solenni a dialogare con riff taglienti e arpeggi inquieti. Il brano funziona e per via di una costruzione articolata necessiterà certamente diversi ascolti per essere assimilato, ma merita e non poco. 
Diversamente alcuni brani tra cui “Hellfire”, “Selfish Lives”, “Toxic Remedy” e “All there Was” che pur essendo ben costruiti a livello formale a mio modo di vedere sono diluiti in soluzioni che ricordano il passato in maniera forse troppo marcata, ma rimangono episodi piuttosto piacevoli. 
Brani deboli? Ho trovato meno riusciti soprattutto “Hourglass” e “Just Us” che hanno soluzioni melodiche piuttosto incolore e nulla da aggiungere rispetto al resto.

Certamente non era una situazione facile la loro, dopo che hai perso DeGarmo, uno dei principali compositori, ti trovi a sostituire niente meno che Geoff Tate, una delle voci più importanti della scena metal. Così li ritroviamo, a poco tempo dalla sostituzione, con un album ononimo il cui difetto era proprio quello di autocitarsi, di guardare troppo al passato e di non essere in grado di trovare un nuovo equilibrio in modo da donare quel tocco di personalità in grado di farti elevare dalle sabbie mobili dei tempi andati. La voce di La Torre è meno versatile di quella di Tate soprattutto quando si trova a muoversi in tonalità basse, diversamente verso l’alto se la cava decisamente bene, donando in fondo ai brani un sapore di antico. Qualche somiglianza con il suo nobile predecessore persiste quindi, ma non tale a mio avviso da offuscare il fatto che La Torre abbia una propria personalità e che spesso riesca a mantenere alta la tensione grazie passaggi decisamente pregievoli.

 I Queensryche si muovono, rispetto all’album precedente, in soluzioni più progressive con passaggi e aperture melodiche in grado di dare profondità ai brani. Condition Human può ricordare, come detto, diversi album del passato dei Queensryche partendo dagli esordi per toccare Operation:Mindcrime, Promised Land e Empire riuscendo tuttavia a farlo in maniera elegante grazie anche a un’ottima produzione in grado di esaltare ogni nota e il risultato è un ritrovato equilibrio tra le parti heavy e quelle più propriamente progressive. 

L’album nel suo complesso è decisamente buono, alternando brani di ottimo livello a composizioni meno riuscite sia per via di soluzioni melodiche poco originali sia perché quelle tonalità vocali sempre alte, per quanto ben impostate, possono restituire una sensazione di ripetizione e di freddezza.
In ogni caso Condition Human può essere visto come un deciso passo avanti di una band che deve uscire dal  paradosso di non tentare di imitare sè stessa ed allo stesso tempo però non può e non deve smarrire la propria identità. I Queensryche in bilico tra il passato alto del quadro di Manet e la modernità apparente della cover di Condition Human

 

MARCO GIONO

 

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