Recensione: Conjuring The Dead

Di Vittorio Sabelli - 17 Agosto 2014 - 7:24
Conjuring The Dead
Band: Belphegor
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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72

 
Giunti al loro ventesimo anno di attività, gli austriaci Belphegor si ripresentano ai fan con un nuovo album, che va ad arricchire la discografia di una delle band più singolari (nel bene e nel male) del panorama estremo.
 
Se gli ultimi tre album, Bondage Goat Zombie (2008), Walpurgis Rites – Hexenwahn (2009) e Blood Magick Necromance (2011) erano usciti con cadenza annuale o quasi, non aggiungedo particolari emozioni ai precedenti, estasianti lavori, la pausa triennale per la creazione di “Conjuring The Dead” in qualche modo risolleva almeno in parte la qualità delle composizioni rispetto alle ultime uscite.
 
A tratti i nuovi brani sembra che riprendano il discorso lasciato con l’ottimo “Pestapokalypse VI” datato 2006, inserendo e sperimentando nuove soluzioni nel songwriting e lasciando da parte (tranne in alcuni brani) quelle aggiunte di ‘epicità’ che avevano smielato il sound distruttivo della band. Che gli inserti death siano diventati parte integrante del loro stile è ormai cosa assodata, risaltando in maniera preponderante in questo lavoro e lasciando echi di black metal nei soli testi, in perfetto stile Belphegor tra blasfemo e surreale, declamati in maniera eccelsa da Helmut, cuore e motore propulsore della macchina infernale.
 
L’opener “Gasmask Terror” mette subito in chiaro le cose, affiancando a un riff devastante e altamente digeribile le ‘solite’ ottime vocals di Helmut, e, seppur scorrendo via senza troppe pretese, rimette in contatto i seguaci con il lato più aggressivo del duo salisburghese. Il seguito è introdotto da un violino malinconico ed è la title-track “Conjuring the Dead”, che innesca elementi esotici prima di quello che è un vero e proprio ritornello, cui segue uno dei tanti soli atonali di chitarra, caratteristica dell’intero disco. I vari momenti si succedono in maniera naturale e le chitarre di Helmut ne sono l’anello di unione. Distorsione e riff diventano melodici arpeggi di chitarre acustiche, cui fa da backgraund un coro prima del devastante finale con le chitarre armonizzate.
 
L’intro incerto di “In Death” sfocia in in un riff death/thrash metal che riporta a que”L’Ultima Cena”, esempio supremo di ‘esordio col botto’ datato 1995. Ma a distanza di (quasi) venti anni il suono è naturalmente moderno, pomposo, in ‘stile’ Nuclear Blast (vedasi ultimi lavori di Carcass e Behemoth). Le cavalcate delle chitarre si snodano tra riff micidiali e soli al fulmicotone, ma sempre mettendo in evidenza quello che è l’elemento fondamentale della band, le voci, utilizzate in maniera varia e superlativa, considerata la gamma e il range di cui il duo può disporre. 
 
L’omaggio blasfemo alla memoria del compatriota Wolfgang Amadeus Mozart non poteva mancare sotto forma di “Rex Tremendae Majestatis”, titolo preso in prestito dall’ultima opera del genio salisburghese, la Messa da Requiem in Re Minore K626, scritta (e non conclusa) in punto di morte. E questa è la cosa più interessante, oltre alla campana iniziale che scocca su un arpeggio di chitarra, non lasciando particolari graffi su uno schema scontato intro-strofa-ritrnello-ripetizione-finale, troppo troppo poco per onorare un genio della caratura di Mozart. “Black Winged Torment” è annunciata dall’intro demoniaca: «Liberare Me Ex Incubo Daemonio», tre minuti ‘alla Belphegor’ con chitarre e batteria spianate a mille per i continui inserimenti delle voci che sfociano in un ritornello ‘da stadio’ e in un innalzamento ‘di tono’ nel finale, retaggio della musica pop italiana anni ’80 (sic).
 
Nell’intermezzo “The Eyes” Helmut si splitta tra chitarra classica e lead in un solo che virtuosisticamente si spalma su una sequenza di arpeggi. Una breve ma efficace chicca che rilancia il terrore con “Legions of Destruction”, brano che alterna diversi timing ed espressioni vocali, che vede sotto forma di responsorio la voce di Glenn Benton per le strofe sotterrate opposta a quella del vocalist dei Mayhem Attila Csihar nei ritornelli. Oltre i nomi niente di memorabile se non l’incedere greve e oscuro sul quale si stagliano accelerazioni improvvise e un solo di chitarra che distingue i vari episodi. 
 
“Flesh, Bones and Blood” è caratterizzata da un mean riff e da break iniziali, tempi dispari e chitarre variegate che alternano accordi dissonanti a riff lenti e cadenzati mentre il mid-time di “Lucifer, Take Her!” è un trampolino di lancio per le chitarre melodiche  (meno in voga rispetto gli ultimi lavori), oltre che alle solite improvvise accelerazioni che trovano la quiete nell’epilogo “Pactum in Aeternum”, dove tra arpeggi, ritmi tribali e mistici si inneggia al solito ‘Signore Oscuro’, come da tradizione Belphegor.
 
Questo decimo capitolo tirando le somme rispecchia lo stile maturato dal duo nell’arco di due decenni, che, nonostante vari tentativi di uscirne in qualche modo, resta ancorato al loro modo di comporre. Ci sono delle buonissime idee e la produzione aiuta senz’altro la perfezione di questo disco, che altri non è che un pretesto per martellare i fan nei loro scenografici live…e allora che live sia…naturalmente “Conjuring The Dead”.
Vittorio Sabelli

 

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