Recensione: Coven, or evil ways instead of love

Di Gianluca Fontanesi - 7 Febbraio 2017 - 0:01
Coven, or evil ways instead of love
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2016
Nazione:
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83

Musica creata non solo per adorare il Diavolo ma per evocarlo.

Volete un gran disco? Eccolo. La Polonia ultimamente si sta rendendo una delle nazioni più pericolose in ambito black metal: Mgla, Batushka, Furia e potremmo andare avanti per qualche riga a suon di band valide e opere altrettanto di spessore. I Cultes Des Ghoules sono una di queste band dai tempi della loro genesi sulla scena; nonostante l’ormai scontato alone di mistero che aleggia sulle identità dei suoi membri, il combo non ha mai deluso, sbagliato un’uscita o creato un prodotto deludente che potesse definirsi tale. Musicalmente parliamo di un black metal oscuro e occulto, che prosegue la sua ormai consolidata tradizione con questo Coven, nel quale la band decide di esagerare e trova appunto nell’opulenza un prodotto che sarà difficile da imitare all’interno di una scena sempre più grandiosa e prolifica.

Coven è un termine inglese che indica la riunione di un gruppo di praticanti per la celebrazione di riti o festività pagane; il tutto qui è offerto sotto forma di pièce teatrale suddivisa in un prologo più cinque vere e proprie scene dalla durata complessiva intorno ai cento minuti, ripartita ovviamente in due dischi. Ognuno dei “brani” si assesta quindi su minutaggi che vanno dai dieci agli oltre venti minuti per un’opera che è in grado di mettere in difficoltà anche gli ascoltatori più esperti. Per Capire Coven è quindi necessario, anzi fondamentale il libretto coi testi, i personaggi e i dialoghi; la fruizione è fortemente vincolata all’immaginazione e alla visione globale di ciò che sta accadendo. Questa non è quindi semplicemente musica ma un’opera completa, enorme e che richiederà moltissimo tempo e pazienza per poter essere assimilata al meglio. Nei Cultes Des Ghoules c’è sempre un tocco di Mgla: qui parliamo del mixaggio, del mastering e di M presente sia nel coro che come narratore nelle Scena I.

Questa è la storia di Dorothea, George, Jaelle, Peter, Hugo e tanti altri; per ovvi motivi non ci sentiamo di spoilerare o addentrarci più di tanto nella trama, non vogliamo rovinarvi la sorpresa e il piacere di scoprire le loro vicende durante l’ascolto del disco, possiamo assicurarvi però che ne vale davvero la pena!

E’ una profezia ad iniziare le danze con una voce demoniaca sostenuta da pioggia e tuoni; presto il tutto viene sostituito dagli archi e ci avviciniamo all’inizio della vera e propria prima scena, ambientata in una taverna locale. Il senso di attesa creato dall’introduzione è notevole e compie il suo sporco lavoro; quando incominciamo ad essere martellati da musica suonata, subito balza all’orecchio la produzione che è si abbastanza pulita ma graffiante e arcigna per quanto riguarda la scelta degli strumenti a corda. L’incedere è vorticoso e straniante; qualcosa sta per succede e, dopo un breve stacco, ecco il cantato zeppo di effetti su un riff che ricorda tantissimo quello portante di Black Dwarf dei Candlemass. C’è spazio per un po’ di sano groove imbastito e giocato su una sezione ritmica qui devastante e malsana; ci spostiamo poi su un territorio praticamente doom, potentissimo e con un voce proveniente direttamente dagli inferi e assolutamente devastante. Tutto in Coven è mefitico e asfissiante, permeato da lunghi loop e cambi repentini, che non mancano di presentarsi anche nel finale della traccia in cui succede praticamente di tutto, arrivando persino a tirare fuori un riff prettamente hard rock seguito dal più violento dei blast beat.

Per la seconda scena ci si sposta alla chiesa di St.Nicholas, di notte, ed ecco puntuale arrivare un organo a introdurre un brano che fin da subito si rivela violentissimo con un feroce blast beat; la voce qui ricorda quella di Aldrahn dei Dodheimsgard e viene a tratti rafforzata da un coro bestiale e malsano. Il riff portante è un tritacarne e la parte lenta del brano è sostenuta da quel riff beffardo accennato alla fine della scena precedente che è un po’ un tema ricorrente in parecchi momenti dell’album. Finale affidato alla ripetizione dei temi portanti del brano che, coi suoi “soli” undici minuti, è il più corto dell’opera.

La strada principale di Canewdon ospita la terza scena ambientata in una domenica mattina, dove un festival prende piede ed è introdotto da una breve trama organistica. Prende poi piede il solito modo di suonare, che abbozza un riff e lo ripete fino allo sfinimento, funzionando contro ogni tipo di aspettativa. Le composizioni di Coven, viste da una certa prospettiva, potrebbero anche annoiare; la loro forza comunque risiede nel magnetismo e dall’atmosfera tetra e sinistra resa praticamente alla perfezione. La parte cantata accompagnata dalla sola chitarra è teatrale alla massima potenza e uno dei migliori momenti qui offerti; molto valido anche il seguente crescendo servito come una finta riuscita benissimo che riporta l’ascoltatore nel posto dove fino a poco tempo prima credeva di non dover più ritornare. La seconda parte del brano è invece permeata da un black metal sporco e marcio, che viene sapientemente alternato ai temi principali proposti in precedenza; ci si sposta poi in lidi ancora confinanti col doom vero e proprio e il finale contornato da accordi aperti completa l’opera, soppresso poi da un breve intermezzo affidato all’organo.

Ci spostiamo ora in uno dei giardini del palazzo di Mr. e Mrs.Crooke; in mezzo al labirinto Dorothea sta osservando il cielo nuvoloso e i primi fulmini possono essere intravisti in lontananza. Qui le danze vengono aperte in maniera diretta, violenta e con un black death nocivo e corrosivo, dall’altissimo contenuto di blast beat e ritmiche in doppia cassa in grado di creare i più esaltanti headbanging. Il susseguirsi dei riff e della traccia è piuttosto lineare e scremato dalle contorte trame proposte finora; verso la metà si cambia però registro in favore di un cupissimo incedere  che annienta definitivamente ogni speranza e vede ancora una volta quel riff che, quando meno te lo aspetti, spunta come una beffa, questa volta con qualche variazione ma poco importa.

La quinta ed ultima scena, coi suoi oltre ventotto minuti di magnificenza, occupa da sola il secondo disco dell’opera, ed è ambientata in un lontano, profondo ed oscuro luogo nella foresta. Cosa succederà a Dorothea? Si parte con un doom piuttosto sostenuto e farcito da tastiere piuttosto invadenti, che presto sfumano e lasciano le chitarre a fare da padrone in un tessuto che è lento e malvagio. Dopo un breve stacco l’esplosione è violentissima e la voce sempre più maniacale e posseduta: sembra veramente di essere sulla barca del Caronte senza biglietto per poter ritornare, è il caos. C’è tempo poi per un inaspettato momento melodico, che arriva dal nulla ed è piacevolissimo, quasi un’oasi di pace contornata del delirio più totale. Ci si aggrappa alla chitarra solista come all’acqua in mezzo al deserto in preda alla sete e ai peggiori dei miraggi; ci si aggrappa come topi dietro al pifferaio di Hamelin e si spera in una via d’uscita, un’ancora di salvezza che sembra non arrivare mai. Il ritorno della voce spazza via ogni sogno e riporta tutto all’inferno senza alcuna possibilità di sfuggirgli. E’ il demonio in persona qui a tessere le trame e, nel momento in cui le due chitarre vengono lasciate compiere un tremolo picking solitario, ecco arrivare puntuale il blast beat a vomitare in faccia all’ascoltatore camionate di male assortito. Ci avviciniamo alla fine e , verso il quarto d’ora del minutaggio, ecco l’ennesimo cambio di umore con uno stacco sui tom e un ridanciano tamburello a sostenere il tutto. Si torna poi presto a connotati ovviamente doom e si nota in tutta la composizione di questo secondo disco un leggero calo compositivo rispetto alla prima e una propensione al dilatare che inizia a risultare più gratuita che voluta. Nulla di preoccupante comunque, anche se a volte si ha l’impressione che questa quinta traccia sia più una b-side che un effettivo valore aggiunto alla trama (parlandone musicalmente). Ci si aspetta un botto, un’esplosione che non arriva mai e si rimane abbastanza spiazzati dalla mancanza di un vero e proprio finale a concludere l’opera; una chitarra lasciata andare sparisce in tutta fretta e lascia spazio agli archi che portano a casa il risultato. Tutto qua.

 

Signore e signori, Coven è un gran disco. Un’opera caleidoscopica, mutevole, aggressiva, feroce e tremendamente ostica. Entrato con pieno diritto in tantissime classifiche dei migliori album di questo 2016 appena concluso, non mancherà di certo di regalare grandi soddisfazioni a tutti gli amanti della musica estrema che possa definirsi tale. Estremo è in fatti l’aggettivo che più calza a un album del genere che, dalla presentazione ai testi alla musica, risulta esagerato in tutto e per tutto, raggiungendo diverse volte picchi di eccellenza assoluta. Tra i difetti che abbiamo riscontrato si potrebbe parlare di un’eccessiva ripetitività dei temi in particolar modo nella prima parte, cosa che abbiamo apprezzato ma che potrebbe scoraggiare ben più di una persone molto prima del previsto. Vi è anche un calo compositivo abbastanza rilevante durante l’ultima scena, o se preferite, ne secondo disco dell’opera, che risulta a tutti gli effetti inferiore al primo e con una minore quantità di idee e riff validi. Dettagli più o meno importanti che non inficiano più di tanto un’opera titanica, un monolite che suonerà nelle nostre casse anche durante questo 2017 appena iniziato. Fateci un pensiero, anzi due, anzi cinque, uno per scena, ma fatelo testi alla mano, in caso contrario vi perdereste una buona parte del concept e della storia che vi è ricamata dentro con un uncinetto intriso di sangue.

 

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