Recensione: Creepy Tales for Freaky Children

Di Alessandro Marcellan - 13 Marzo 2009 - 0:00
Creepy Tales for Freaky Children
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Anno: 2007
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Woodland Prattlers: la magia
Questo era “Woodland Prattlers”: un originale metal sinfonico con influenze nel progressive emozionale ed imperniato sul cantato (quello concettualmente più vicino ai Pain of Salvation che al canonico stile virtuoso/strumentale), che si espandeva come una sorta di colonna sonora fiabesca, accentuata da frequenti parti orchestrali e costanti sottolineature di arpa e celesta, arricchendosi altresì di elementi folk, di parti più aggressive in perfetta simbiosi e, soprattutto, della camaleontica voce di Max Samosvat che, su linee melodiche mai scontate, arrivava ad interpretare con differenti intonazioni (come il grande Mercury di “Brighton Rock”) i vari personaggi coinvolti nel concept-album d’ispirazione burtoniana (influenza, quest’ultima, ben evidente anche nei fumetti dell’artwork).  

Scioglimento e reunion, anzi no
Fu quindi con grande amarezza che gli appassionati, ormai lusingati da un nuovo punto di riferimento su cui contare per il futuro, accolsero la notizia dello scioglimento della band russa. Era l’ottobre del 2005, allorché un comunicato nel sito ufficiale non lasciava scampo: “Mechanical Poet is no more”. Lo stesso annuncio rendeva nota l’esistenza di molto materiale inedito, che -si disse- sarebbe confluito in successivi dischi sotto nuovo monicker. Nel frattempo il chitarrista e compositore Lex Plotnikoff iniziò a dedicarsi al suo progetto solista “Sonny Grimm” (in cui, a dispetto della grafica familiarmente “magica” del sito web, le sonorità sarebbero dovute orientarsi -a detta dello stesso Lex- sui generi “gothic/punk/alternative/rock”), e il cantante Max Samosvat tornò a concentrarsi nella sua power-band Epidemia, mentre Tom Tokmakoff, abbandonata la batteria, si riciclò nelle vesti di produttore. Fino a che, dopo circa sei mesi, giunse ormai insperato l’annuncio della reunion. Ma la gioia fu affievolita molto presto dall’abbandono di alcuni dei pezzi pregiati della band: da tempo irrecuperabile l’altro songwriter principale Tokmakoff, di lì a poco lo split coinvolse –ahimè- anche il singer Samsovat, che già aveva registrato alcuni demo per il nuovo atteso album. “Divergenze artistiche”: come vedremo non era forse da biasimare.

Creepy Tales for Freaky Children: “Stesso nome, nuova formazione, nuovo concept, nuovo sound”
Rimessi insieme i pezzi (più o meno), arruolato come nuovo cantante tal Yuri “Jerry” Lenin (proveniente dalla scena punk/glam russa) e come batterista Vladimir Ermakoff (della HM-band dei Black Obelisk), Plotnikoff rimette in moto la macchina e annuncia il nuovo album con dichiarazioni spiazzanti. Un nuovo sound, dunque. E così pare che sarà, nelle intenzioni, per gli album a venire. L’approccio di “Creepy Tales for Freaky Children” è quindi “immediato” perché così (a detta del chitarrista) richiede la nuova storia: quindi non aspettiamoci nuove “Bogie in a coal-hole” né suite alla “Natural Quaternion”. Ma non lasciamoci neppure influenzare da definizioni o descrizioni, che spesso vengono smentite dai fatti. Vediamo allora se i Mechanical Poet (o ciò che resta di loro) sono riusciti a cambiare totalmente registro mantenendo alti i livelli di: 1) qualità; 2) personalità (doppia operazione riuscita a pochissimi: penso per es. ai Queensryche per un decennio fino al 1994).
Copertina e artwork, anche stavolta realizzati dall’artista Lee Nicholson (sempre ispirato dalle animazioni di Tim Burton), in realtà lasciano ben sperare nel segno della continuità. E anche la partenza del disco è buona: “Welcome to Creepy Tales” è una breve ma roboante introduzione sinfonica che, fra gli applausi del pubblico, apre le danze in maniera incoraggiante alle favole spaventose, la prima delle quali, “Urban Dreams”, in effetti non delude troppo le (alte) aspettative: la canzone è bella energica e riprende parzialmente alcuni elementi del precedente album (vedi -a tratti- arpe ed inserti sinfonici), e l’accostamento che mi è balenato in testa è -vagamente- quello con “Strayed Moppet” (anche per certe tastiere moderne e quasi futuristiche). L’approccio pare tuttavia differente, più diretto ed “easy”, come emerge dal suono della chitarra (che la produzione mette piuttosto in ombra) e da un ritornello certamente non memorabile, molto semplice e quasi mainstream. Una buona sezione ritmica e un azzeccato break strumentale verso il finale fanno comunque promuovere il pezzo come “discreto”.
A non convincere appieno è invece subito il nuovo vocalist: laddove le caratteristiche di Samosvat erano buona tecnica e grande espressività e poliedricità, la voce di Lenin si presenta invece nasale e piatta come quella di un corista parrocchiale, limitata nell’estensione ed incentrata essenzialmente sui toni medio-bassi: probabilmente perfetto per le sonorità punk da cui proveniva, anche lui, va detto, non è agevolato da una produzione che toglie spazio agli strumenti.
Ma proseguiamo nell’ascolto del platter. Anche “Bubble Bath” sembra cominciare bene fra le ormai classiche e sognanti parti di tastiera arpeggiate e gli intriganti controtempi, ma l’incantesimo si spezza quasi subito nella banalità complessiva del pezzo, in cui anche gli accompagnamenti orchestrali di un insopportabile ritornello (“…slow slow slow down your breath…”) ricordano stavolta più la canzonetta discomusic anni’70 che non la solenne magia primordiale del Poeta Meccanico. I 2 minuti della successiva “Spikyhead + Miremaid” risulteranno emblematici: nonostante un buon riffing iniziale, il brano, nella sua fugacità, acutizza e mette a nudo il problema della limitatezza del range vocale, nonché l’opzione minimale che sta alla base del disco, e che (senza troppe sorprese, qualcuno dirà) va di pari passo con il mai pubblicato album solista di Plotnikoff e il background dello stesso singer. E così, col trascorrere del minutaggio, momenti ancora piuttosto ispirati si alterneranno a diverse canzoni facili e molto simili fra loro, dalla prevedibile forma strofa-ritornello, con scarsa inventiva, melodie ripetitive, poche variazioni e (men che meno) tocchi di genio, e con gli stessi rimasugli sinfonici che sembrano quasi una forzatura in questo contesto: lo stesso, divertente, intermezzo “Dolly”, in cui rispuntano le vocine cartoonesche (e in cui, a sorpresa, Lenin se la cava egregiamente sia nei bassi che nel dare un tocco ironico nel mini-refrain) sembra un corpo estraneo, quasi che Plotnikoff abbia voluto inserire certe caratterizzazioni di “Woodland Prattlers” senza crederci, tanto per far contenti i fans e far vedere che, in fondo, questi sono sempre i Mechanical Poet (ma lo sono davvero?).
Da un lato, dunque, abbiamo i lampi di luce della ballad sinfonica “Vesperghosts Of Milford Playhouse” (che restituisce le atmosfere fiabesche e si avvale pure di una prova vocale dignitosa), della più potente “The Afterguide” (ben costruita, dalla buona progressione melodica e con alcune interessanti intuizioni anche atmosferiche: un pezzo che -imprecisioni di Lenin a parte- poteva segnare una possibile strada di evoluzione già accennata nella track 2) e, in parte, della variegata “Hide And Seek With Cary Nage” (che nasce da un’invitante introduzione d’atmosfera e riporta inaspettatamente in auge le voci da cartoon, anche se poi si scioglie come neve al sole nella ripetitività delle linee melodiche).
Dal lato opposto, emerge un prevalente orientamento rock-pop-alternative sempliciotto, che va per la maggiore in brani come “A Rose For Michelle” (mediocrità salvata solo in piccola parte da un buon assolo di Plotnikoff), “Lamplighter” (vivacizzata dagli inserti di pianoforte ma rovinata da un refrain da serie tv americana per adolescenti), “The Dead, The Living And The City” (un lento noioso e con un Lenin ancora barcollante, con l’unico spunto del cambio di tono nell’assolo) e soprattutto nell’imbarazzante epitaffio “Once Upon A Day” (brano da dimenticare, canzoncina pop-punk moderno sul genere Blink 182, a cui manca solo il video con le modelle a bordo piscina).  

End credits
Mechanical Poet (2007) is Lex Plotnikoff. Mi dispiace, ma non regge la scusa addotta dall’unico componente effettivo a questo punto rimasto nella band russa: la latitanza di idee si appalesa (certo) soprattutto rispetto al precedente disco (del quale manca terribilmente la “magia” favolistica), ma ciò vale anche in senso assoluto, e la cosa non può essere giustificata dalla necessità di raccontare diversamente “una nuova storia”. Del progetto che (come recita la bio nel sito del chitarrista) riuniva “riffs heavy, orchestra sinfonica, da camera, e parti elettroniche mixate in ogni possibile proporzione” è rimasto ben poco, e la nuova incarnazione dei Mechanical Poet appare qui, al contrario, nelle vesti di una band dalla personalità zoppicante, con pochi elementi che possano ricondurre ad un sound proprio, con scarso sforzo compositivo e qualche riempitivo in eccesso, mentre i brani in cui riappare velatamente la classe dell’esordio risultano minoritari. Troppo poco, dunque, per un giudizio positivo. Le soluzioni all’enigma “Mechanical Poet” sono allora aperte: promessa non mantenuta, fenomeno sopravvalutato, o aspettative troppo elevate?  

Alessandro Marcellan, “poeta73”    

Tracklist:
1. Welcome To Creepy Tales
2. Urban Dreams
3. Bubble Bath
4. Spikyhead + Miremaid
5. Vesperghosts Of Milford Playhouse
6. A Rose For Michelle
7. Dolly
8. Lamplighter
9. The Afterguide
10. Aztec Zombies*
11. The Dead, The Living And The City
12. Hide And Seek With Cary Nage
13. Once Upon A Day
14. The Dead, The Living And The City (Russian Version)**
15. The Afterguide (Russian Version)**
16. Vesperghosts Of Milford Playhouse (Russian Version)**
* “Director’s Cut” Bonus Track
** Russian Edition Bonus Tracks  

Line-up:
– Jerry Lenin / vocals
– Lex Plotnikoff / guitars
– Serge Khlebnikoff / bass
– Vladimir Ermakoff / drums

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