Recensione: Cryptopsy

Di Vittorio Sabelli - 28 Novembre 2012 - 0:00
Cryptopsy
Band: Cryptopsy
Etichetta:
Genere:
Anno: 2012
Nazione:
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83

L’attesa è finita: nel bene e nel male ho/abbiamo aspettato questo disco con trepidazione, dopo il passo falso di “The Unspoken King”, che ha messo in allarme gli addetti ai lavori, abituati da anni alle ottime release della band canadese.
 
Questo rende ancora più viva l’eccitazione per “Cryptopsy”, settimo album di una carriera quasi ventennale che ha visto la nascita di un disco da top-five del brutal death metal: quel “None So Vile” che nel 1996 li ha resi al Mondo, capitanati dal criptico Lord Worm, che non poco ha influenzato lo stile della band. E proprio un disco del genere tiene alta l’aspettativa nei confronti delle uscite successive, anche dopo l’abbandono delle scene dello stesso Worm, a vantaggio di Mike Di Salvo per i successivi “Whisper Supremacy” e “And Then You’ll Beg”, salvo tornare dieci anni dopo in “Once Was Not”. E nonostante i vari ritocchi in line-up, i Cryptopsy hanno continuato a produrre dischi interessanti e degni successori del loro capolavoro, allo stesso tempo ricchi d’inventiva e intuizioni che riflettevano la spiccata dote strumentale e compositiva dei musicisti coinvolti.

La nuova dipartita dello stanco leader, questa volta in via definitiva, vede l’inserimento dell’ottimo Matt McGachy alla voce e Maggie Durand alle tastiere nell’imputato “The Unspoken King”: clean vocals, bordoni di tastiere, chiari segni di una fase in declino o solo un cambio di rotta?

Nulla del genere, solo un passo falso, come già detto. Grazie al ritorno della ‘seconda anima’ del gruppo Jon Levasseur – a far coppia con Chris Donaldson – e l’inserimento dell’ex Neuraxis Olivier Pinard a sostituire il veterano Eric Langlois al basso, i Cryptopsy ritornano sulle scene per proseguire il discorso interrotto quattro anni fa.

E lo fanno mettendo in gioco gli elementi che li hanno resi celebri e ne hanno caratterizzato il sound, ritornando a cavalcare il technical death metal, intriso con qualche sprazzo *-core e anche accenni che spaziano dal jazz alla bossa nova – generi molto cari a Levasseur – usati come piccoli ‘stacchi’ o ‘intermezzi’, a volte durante i brani, altre a conclusione, spezzando temporaneamente la pioggia di metallo che ci bombarderà per un’abbondante mezz’ora.

Una falsa intro tra ‘industrial’ e ‘On The Run’ anticipa quella che è la vera introduzione, preceduta da uno stacco della batteria, e ci dà il benvenuto nel nuovo mondo targato Cryptopsy. Lo schianto è immediato e non lascia vie d’uscita alla ferocia imposta dal combo, a voler dimostrare che “The Unspoken King” fa parte del passato. Si riparte da “Two-Pound Torch”: tempi al cardiopalmo e riffing infernale sono la costante su cui avviene la rinascita, ottime fondamenta per l’animalesca voce di McGachy, che si contrappone ottimamente creando un ottimo impasto nella resa globale. Il basso di Pinard introduce “Shag Harbour’s Visitors”, intrisa di elementi hardcore, già presenti negli ultimi lavori, così come in “Damned Draft Dodgers”, dove un mini-glockenspiel intona un motivo su una bossa nova. La parola hardcore, sia ben chiaro, va presa con le pinze, sono solo brevi accenni e sezioni che s’integrano con la violenza espressa dai Cinque di Montrèal e dai cambi di tempo fulminei che tornano a far sussultare dopo un’astinenza piuttosto lunga. “Red-Skinned Scapegoat”, tra i brani più complessi e vari dell’intero platter è un continuo delirio, spezzato solo dal primo solo di chitarra che scardina momentaneamente la ritmica esasperata imposta da Mounier. Degli intermezzi melodici conducono a una sezione mid-tempo che non fa che accrescere l’energia, dissipata da un breve accenno di swing con tanto di guitar solo in stile old jazz, preludio del devastante finale. “Amputated Enigma” e “Ominous” seguono le orme dell’opener, con scatti di brutalità ben congeniati da un mago della composizione qual è Levasseur, che architetta queste perle assassine con una sapienza e una costruzione che rispecchiano in tutto la sua esperienza. Le sei corde si amalgamano con la macchina ritmica comandata da Mounier e dall’ottimo Pinard – grandiosa cavalcata nella seconda sezione di Ominous – , che amplifica notevolmente la spinta in ‘fase di uscita’. In poco più di tre minuti “The Golden Square Mile” è capace di passare da un riff melodico a degli stacchi da capogiro che di nuovo si cambia su metriche dispari e stop’n’go che martellano il sistema nervoso centrale. La conclusiva “Cleansing The Hosts” conferma la sapienza in fase compositiva, sviluppando un riff iniziale alquanto semplice che innesca l’indecifrabile growl gutturale di McGachy, che continuerà a far storcere il naso per i suoi ‘trascorsi’ metalcore, ma personalmente dà il suo contributo ‘moderno’ alla causa! Siamo tutti affezionati a Warm, ma sinceramente credo vada relegato ai dischi meravigliosi che ci ha regalato: l’evolversi della band sarebbe stato senz’altro condizionato dal Lord dell’oltretomba.

Dulcis in fundo un plauso alla produzione, prettamente moderna, che risalta il contenuto in ogni momento e per ogni colore e, semmai ce ne fosse bisogno, una menzione speciale a Flo Mounier, che è il ‘collante’ di queste due decadi distruttive. Anche nei periodi più oscuri non credo possa esserci un solo amante della musica che non resti estasiato da uno dei maggiori esponenti del drumming moderno.

Grande ritorno dei canadesi con uno dei dischi top ten dell’anno.

Vittorio “VS” Sabelli

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Tracce:
1. Two-Pound Torch 5:03  
2. Shag Harbour’s Visitors 4:22
3. Red-Skinned Scapegoat 5:57
4. Damned Draft Dodgers 3:58
5. Amputated Enigma 4:02
6. The Golden Square Mile 3:13
7. Ominous 3:47
8. Cleansing The Hosts 4:31

Durata 35 min.

Formazione:
Matt McGachy – Voce
Christian Donaldson – Chitarra
Jon Levasseur – Chitarra
Olivier Pinard – Basso
Flo Mounier – Batteria/Voce (Backing)

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