Recensione: Culture Clash

Di Valter Pesci - 6 Aprile 2015 - 0:00
Culture Clash
Etichetta:
Genere: Progressive 
Anno: 2013
Nazione:
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85

Dopo aver stupito, stregato e incuriosito l’intero panorama musicale mondiale in seguito all’uscita dell’incredibile debut album di due anni prima, nel 2013 il trio più geniale degli ultimi decenni rilascia l’attesissimo seguito. Veniamo dunque al sodo e immergiamoci nell’ascolto di questo “Culture Clash”.

Il primo, seducente brano di questo nuovo lavoro è la iper trascinante “Dance Of The Aristocrats”; una vera e propria bomba prog-fusion, con un ritmo e un groove impossibili da dimenticare fin dal primo ascolto, magistralmente architettati dal mostruoso drummer in coordinata e ultra collaudata collaborazione col basso distorto di Beller. Si inserisce poi il riccioluto capellone anglosassone delineando la melodia principale del brano. Il solo di chitarra non delude le aspettative, tanta tecnica e originalità per iniziare al meglio questo percorso. La coda è ancora una volta affidata all’accoppiata melodica architettata dai due addetti alle corde, mentre il portatore sano di sorrisi alle loro spalle continua imperterrito a scandire tempi seducenti e accattivanti.

Dopo questa super catturante hit, è il momento della title track, “Culture Clash”. Un bell’arpeggio soft in pulito accompagnato da un semplice giro di basso fa da preludio all’entrata in scena delle percussioni. Un aumento di volume, coincidente con lo switch al canale distorto, ci fa entrare nel vivo del pezzo. Vari riff cantabilissimi ci accarezzano l’udito alternandosi con segmenti in cui si ritrova quella famosa ironia di cui parlavamo nella recensione del primo album. Tra giochini improvvisati, armonici artificiali e non, riff funkeggianti e assoli ricchissimi di originalità e finezze tecniche, Guthrie ci conduce alla sezione dedicata interamente alla matrice identificativa della band, ossia l’improvvisazione organizzata già citata parlando dei mostri in quesitone. Da segnalare il lavoro straordinario alle pelli del Marcone più amato dai batteristi di tutto il mondo. 

“Louisville Stomp” è uno dei pezzi più movimentati ed interessanti dell’intero platter. Un bel tempo in swing veloce scandito dal super drummer fa da sfondo ad un altro riff inconfondibile, in pieno stile GG. Sin dalle prime battute si capisce che qui si fa sul serio, il palying del trio possiede un tiro entusiasmante ed ognuno eccelle in gioielleria pregiata di vario tipo nel proprio ambito. Come se non bastasse, dopo una breve sessione di soli pseudo-improvvisati, i fantastici 3 decidono di aumentare i bpm e di riattaccare con un riff ancora più coinvolgente per poi perdersi psico-fisicamente in soli incantevoli. Il tipico mess-up che di solito costituisce la coda della maggior parte dei brani co questa caratteristica ci induce per abitudine a pensare che, dopo tanta grazia, questo eccentrico circo di intrattenimento puro stia per calare il sipario. 

E invece NO! 

Proprio quando sembra finita, la canzone riparte con il solito riff raddoppiando ulteriormente il tempo e scatenando una corsa virtuosistica finale da pelle d’oca. Pezzo incredibile. L’aneddoto che sta dietro al titolo dell’incisione successiva, “Ohhhh Noooo”, proviene da una delle tante disavventure on the road cui una band va inevitabilmente incontro una volta preparati i bagagli per la tournée. Chi ha avuto la fortuna di poterli vedere live sa benissimo di cosa sto parlando, ma spiegherò brevemente da dove deriva tale strambo titolo: durante un soundcheck prima di un concerto qualcuno (probabilmente il buon Minnemann), passa a fianco del poggia-chitarra di Guthrie, urtandolo violentemente e causando il rovinoso precipitare a faccia in giù dello strumento; chiunque di noi umili umani, in una situazione del genere, comincerebbero verosimilmente ad invocare divinità di tutti i tipi in maniera non propriamente carina, invece lui, Mr. Govan, con una nonchalance assoluta, si fa baluardo della proverbiale britannica aplombe,  limitando la sua esclamazione a un sommesso quanto sorpreso “Ohhhh Noooo”, appunto!
Dopo questo breve sketch, torniamo seri (?) e vediamo di analizzare il brano in questione. Ancora una volta un groove assassino ci assale, capitanato da un ispiratissimo Bryan Beller. Poi un riff prog strafottente cerca di farci uscire di testa con una struttura intricata e altrettanto intrigante. Inutile ribadire che ogni sezione solistica si distingue per eccellenza compositivo-esecutiva. La parte centrale rappresenta un’atmosferica parentesi che a tratti ricorda qualcosa di Floydiana memoria, ma il finale è tutto di marca Aristocratica. Con un riff sbeffeggiante si riaprono più sostenute danze, sempre alternate da brevi pause e cali improvvisi di tempo e intensità. Le ultime battute, dritte e possenti concludono improvvisamente questa traccia.

Anche la canzone che ci apprestiamo a sezionare, “Gaping Head Wound”, deve il suo titolo a fatti realmente accaduti, questa volta però la vicenda ci viene raccontata  direttamente dal salotto di casa Govan, con l’axeman attore protagonista. A quanto pare, il capelluto genio stava componendo proprio il brano in questione e per trovare la giusta concentrazione decise di alzarsi improvvisamente da dove era seduto, schiantandosi rovinosamente contro lo stipite di una finestra. Lascio immaginare il risultato. Tuttavia, neanche la perdita di litri di sangue dal capo può fermare un vero professionista, infatti il nostro supereroe, dopo essersi rudimentalmente auto applicato un’improbabile fasciatura, riprese immediatamente il lavoro lasciato in sospeso, portandolo gloriosamente al termine. 

Musicalmente parlando, questo brano presenta evidenti marchi di fabbrica della band (vedi recensione precedente), uno su tutti i continui ed improvvisi cambi di ritmo e intensità, i quali danno vita ad un’altalena ritmica dal mood minaccioso. Nel super mellow segmento centrale, trova spazio anche un pensieroso solo di basso che fa da apripista a uno dei più bei soli di chitarra dell’intera pubblicazione, Guthrie si scatena in shreddate degne della sua fama ma anche di tanto gusto e sempre con un groove insito che fa impazzire. Minnemann sul finale decide di prendere le redini del gioco con un po’ di effetti speciali prima di condurre i suoi prodi al tronco finale.
Arriviamo ora alla sesta traccia dell’album, la misteriosa e roboante “Desert Tornado”, sicuramente uno dei pezzi più azzeccati e interessanti.

Un groove fantascientifico di Marco Minnemann viene presto incalzato dall’enigmatico suono del basso belleriano. Quando Guthrie fa il suo ingresso, il tutto diventa ancor più misterioso e affascinante. Il riff continua in questo mood e, ad ogni battuta, il sound espresso dai nostri tre diventa sempre più coinvolgente e amalgamato. Tra crescendo di volume e variazioni di intensità, impreziositi da stupendi tempi dispari, il pezzo scorre che è una meraviglia in un climax ascendente di suspense degno delle migliori colonne sonore thriller. La sezione solistica, manco a dirlo, è sempre una delizia.

“Cocktail Umbrellas” presenta un altro riff inconfondibile, d’altronde l’inglesino ha sempre avuto un suo suono e una sua identità ben definite e anche in questa song esibisce alcuni dei suoi marchi di fabbrica: passaggi super cantabili, riff graffianti ma leggeri e la solita, immancabile ironia spesso tradotta in armonici (naturali e non) e veloci bending semi tonali o tonali, alternati con maestria. Quando poi decide di alzare nuovamente l’asticella, sforna soli misti di alternate e legati inumani, incastrati ad arte nel suo compatto e pieno playing. Bryan qui non esagera, limitandosi ad accompagnare egregiamente ma senza guizzi personali; per quanto riguarda il mostro alle pelli, può in un certo senso valere il discorso, eccezion fatta per un paio di stravolgimenti di tempo e prelibatezze tecniche incastrate qua e là.

La penultima composizione è la più metallara dell’intera fatica. “Living The Dream” sfoggia una “pesantezza” di suono e una cattiveria mai udite prima d’ora all’interno della carrozza più aristocratica del mondo, che ormai da un lustro ci trasporta in viaggi incredibili. Un bel riff sporco e arrabbiato quanto basta fuoriesce da overdrive e rumori vari in dissolvenza, immediatamente i tempi si complicano e i bpm si alzano in una coinvolgentissima cavalcata prog. Gli ormai noti cambi di atmosfera però, non mancano nemmeno in questa occasione, rendendo il tutto più altalenante e umorale. Una pausa silenziosa introduce il sussurrato, lieve ma minacciante break centrale: qualcosa che ci fa pensare alla proverbiale quiete prima della tempesta. Manco a dirlo, in un boom di volumi, si riaprono le sontuose danze, in un rush finale costellato di finezze. Ma non è ancora finita, quello che ragionevolmente avrebbe potuto costituire l’ultimo switch emotivo del pezzo, deve improvvisamente lasciare spazio invece alla vera coda conclusiva: l’ennesimo rallentamento ci svela un breve arpeggio, quasi malinconico, che va sfumando in un atro fischio di overdrive che coincide col finale del brano.

“And Finally” è la nona e  ultima pennellata di questa coloratissima tela. Le prime energiche battute, condite da vari tempi dispari, vengono presto smorzate e il mood della canzone continua bello tranquillo per gran parte dei suoi 6 minuti e rotti. Già dal primo ascolto, risulta evidente la libertà all’interno della quale i nostri di decidono di muoversi per poter improvvisare come solo loro san fare. Ne risultano fraseggi e scambi di idee sublimi oltre raffinati botta e risposta tra i tre musicisti. Sembra di vederli, in un tipico atteggiamento “live”, sul palco, suonare e divertirsi più o meno liberamente per poi ritornare sui binari prestabiliti di un riff super catchy e riuscito al solo gesto di uno o dell’altro interprete. E così fino al finale.

Giunti al riepilogo finale, non si può far altro che tessere ulteriori infinite lodi a questo lavoro, il quale consolida prepotentemente quanto intuito dopo la release del primo LP. La maturità sonora e la ancora più amalgamata compattezza degli elementi e delle proprie idee, unite ad una ispirazione e ad un’originalità compositiva ancora più riuscita, nonché a una padronanza totale dello strumento, della tecnica e della teoria musicale, rendono quest’album un capolavoro del genere. L’augurio è che il trend non si spezzi e che, come è facile essere portati a pensare, i nostri 3 non abbiano ancora raggiunto il loro massimo livello di espressione di potenziale. Se così è, la grande attesa per il loro terzo lavoro in studio (in uscita a breve) è destinata a diventare ancora più febbrile, ma sarà sicuramente ripagata in seguito.

Long live The Aristocrats!

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