Recensione: Damage Control

Di Alessandro Zaccarini - 11 Gennaio 2011 - 0:00
Damage Control
Etichetta:
Genere:
Anno: 2007
Nazione:
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70

Quando gli UFO guidati da Michael Schenker si facevano strada nell’allora ricchissimo panorama hard rock britannico a colpi di ‘Force It’, il giovane Jonathan Gray era solo un ragazzino di Newcastle che cominciava ad appassionarsi alla musica. Ancora lontano dal diventare lo Spike che nel 1990, con lo spettacolare ‘A Bit of What You Fancy’, avrebbe guidato i suoi Quireboys a un clamoroso secondo posto degli album più venduti in Regno Unito.

Eppure c’è qualcosa che lega un vecchio marpione delle quattro corde come Pete Way e il buon Spike. Qualcosa che per fortuna accomuna tanti, tantissimi: l’amore per la musica rock, che sia nel suo formato più classico o più hard. Senza dimenticarne il lato melodico, quello di Robin George, che con Pete Way ha fatto nascere il progetto Damage Control e che si schiera tra le file della band all’immancabile elettrica. Spike venne infatti reclutato in un secondo tempo, quando i pezzi erano già in stadio avanzato di composizione. La sua voce però sembrerebbe agli antipodi del casuale per quanto si incastona alla perfezione nelle trame del disco. A concludere una line-up di tutto rispetto troviamo l’ecclettico Chris Slade e il suo tipico suono di charleston, un uomo che può vantare di aver suonato (tra gli altri) con Angus Young, Jimmy Page, Gilmour e Olivia Newton-John. Prossimamente la jam con il Dalai Lama.

Eppure i gruppi superstar non hanno mai decollato nelle graduatorie dei fan: troppe volte si sono rivelate trovate per riempire i ritagli di tempo e soprattutto il conto in banca dei partecipanti e ovviamente dell’etichetta del caso, spesso la burattinaia consapevole di questo tipo di progetti. Per fortuna con i Damage Control le cose sembrano andare nel lato opposto. Quello di Bitchin’ Blues e C’mon Down.

Ad aggiungere un punto a favore del prodotto l’idea che il tutto sia stato fatto con budget ristrettissimo: dalla grafica alla produzione. Che sia stato o meno un tentativo di mantenere un basso profilo l’ album si rivela ben presto un tributo al blues n’roll d’annata. All’antipodo del commerciale, fuori dai trend del momento. Talvolta malinconico, talvolta sofferto, con suoni quasi da autoprodotto e un’attitudine da vecchi amici che rispolverano gli strumenti nel seminterrato. Niente rockstar, niente limousine e hotel a cinque stelle. Solo due tradizioni e due generazioni che si incontrano e sviluppano quello che è il denominatore comune attraverso dodici brani privi di capolavori ma che vi assicuro barattereste volentieri con una delle tante delusioni raccolte in questi anni di supergruppi e reunion senz’anima. Quelle di cui avete visto banner ovunque, quelle che hanno invaso le pagine delle riviste, quelle che hanno i grandi nomi e i grandi budget in primo piano al posto della musica.

Tracklist:
01. Dead Man Walking
02. Savage Songs
03. Alice
04. Selfish
05. C’Mon Down
06. Damage Control
07. Victim
08. Raw
09. One Step Closer
10. Redundant
11. Seven Golden Daffodils
12. Bitching Blues

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