Recensione: Damage Dancer

Di Fabio Vellata - 20 Maggio 2014 - 0:01
Damage Dancer
Band: Gun Barrel
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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64

Sei album in tredici anni di carriera, una difficoltà atavica nel reperire un singer in pianta stabile ed un modo di far musica che – come cristallizzato nel cemento – non si è mai spostato di un millimetro dalle coordinate iniziali.

C’è chi la chiama mancanza d’idee, chi coerenza, chi semplice passione per uno stile.
Fatto sta che, come sempre intrisi di un alone “underground” tipico delle band assolutamente di nicchia, i Gun Barrell si manifestano con regolarità sul mercato con i loro album. Mai imprescindibili, sempre ricchi e debordanti di stereotipi, al solito carichi di energia e genuina attrazione per l’heavy rock mediato con il power e qualche sussulto rock n’roll.

Chi ha già frequentato la chiassosa crew del chitarrista Rolf Tanzius sin dall’epoca degli esordi coincisi con l’uscita del buoni “Power Dive” e “Battle Tested” –  ad oggi l’apice mai più raggiunto dalla band tedesca – sa bene cosa aspettarsi da un album dei Gun Barrell.
Chitarre potenti e costantemente in primo piano, tempi medio-alti che si mantengono senza indugiare mai in eccessive variazioni, atmosfere fumose di dichiarato stampo power-rock ed un cantante, come da copione, che non ha nell’estensione vocale la dote principale mediante la quale poter eccellere.
Uscito a distanza di un paio d’anni dal precedente “Brace For Impact”, il nuovo “Damage Dancers” si fa notare per la riconferma del frontman Patrick Sühl – fatto gia da par suo inconsueto – e per un certo orientamento più hard rock nella composizione dei pezzi, ora divenuti in qualche misura meno chiassosi ed esuberanti di quanto non fosse stato in occasione delle uscite passate.
Un peccato a dire il vero: la velocità “motorheadiana” di alcune tracce, l’irruenza conclamata e l’evidente desiderio di schiacciare sull’acceleratore lasciando perdere qualsiasi lavoro di fioretto, avevano da sempre rappresentato l’arma in più del quartetto germanico, lontanissimo dalla definizione di “gruppo di classe” ma comunque energico a sufficienza da strappare qualche scapocciata di massimo consenso e semplice divertimento.

Il fulcro dei brani è al solito la buona verve alla sei corde di Tanzius, axeman che non può probabilmente proporsi in veste di grande virtuoso, ma si rende comunque protagonista di quelle che sono le parti più succose e piacevoli delle composizioni: gli assolo e gl’interventi di chitarra, infatti, si prospettano come gli elementi utili nel consentire ad un disco tutt’altro che imperdibile come “Damage Dancers” d’elevarsi almeno in parte da una mediocrità altrimenti diffusa e conclamata, talvolta in linea, stilisticamente, con una delle produzioni più mosce e meno performanti dei conterranei Mad Max (che intendiamoci, sanno essere una band deliziosa…ma quando prendono la via della banalità strappano sbadigli in serie).
“Passion Rules”, “Building A Monster”, “Heading For Disaster”, “Vultures Are Waiting”: tutti episodi che sfruttano un songwrting piuttosto statico e privo di variazioni, imperniati su cadenze costanti che rendono discretamente ad alto volume in virtù della buona produzione, ma non sembrano proprio avere destino longevo e duraturo, rimanendo relegati allo spazio vitale di qualche rapido passaggio.
Di contro e per fortuna, i Gun Barrell dimostrano di saper comunque ancora darci dentro di randello, piazzando qua e là qualche buona sventagliata di sano hard n’roll alla vecchia maniera: “Bashing Thru”, “Ride The Dragon” e “Whiteout” sono pezzi che si lanciano su ritmi più sostenuti, offendo quel po’ di adrenalina necessaria a svegliare da un torpore che può pure essere piacevole a tratti, ma molto più spesso porta al termine dell’ascolto del disco con l’antipatica sensazione di non essersi imbattuti in qualcosa che valga davvero la pena di far ripartire daccapo.

I Gun Barrell son così. Il classico gruppo che possiede in patria una nutrita schiera di affezionati sostenitori, dotato di una fama rispettabile, epperò costretto da sempre a dibattersi entro i limitati confini dell’underground. Uno status, come già sperimentato in tanti altri casi, nel quale la band pare tuttavia sentirsi particolarmente a proprio agio.

Del resto, non sarà certo un disco come “Damage Dancers” a cambiare le cose…

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