Recensione: Damaged Pearls

Di Fabio Vellata - 4 Febbraio 2014 - 23:18
Damaged Pearls
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2013
Nazione:
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77

Una band di sicuro talento ed avvenire questi Old Man’s Cellar, recente scoperta di Valery Records, label tricolore cui va ascritto il merito di aver intuito per prima le buone potenzialità del gruppo modenese.

Attivo dal 2009, il quintetto ha dalla sua una notevole agilità melodica ed un innato istinto per le composizioni capaci di familiarizzare in modo subitaneo ed immediato, miscelando sfumature di evidente connotazione AOR, con sprazzi hard rock e qualche piccolo riverbero prog, in un contesto che – in ogni frangente – predilige proporsi con eleganza e compostezza piuttosto che attraverso un’irruenza tipicamente heavy.

Un po’ vicini al progetto Los Angeles di Michele Luppi, gli Old Man’s Cellar possiedono proprio nella voce del singer uno dei caratteri maggiormente distintivi: frontman d’indubitabile statura, Ricky DC più che allo stesso Luppi sembra in numerose situazioni volersi accostare alle tonalità tipiche dell’ottimo Fabio Lione, riscuotendo un inatteso quanto soddisfacente successo.
Gli fa eco da par suo, il talentuoso guitar player Federico Veratti, professionista della sei corde con un background – a quanto ci è dato ascoltare – costruito con reiterati passaggi negli scenari melodici d’epoca ottantiana.

Ed è proprio attraverso la sinergia DC / Veratti che si sviluppano gli incoraggianti esiti di “Damaged Pearls”, pietre angolari di un debutto dalle notevoli doti d’attrattiva.

Fascinoso e carico di charme sin dalle battute iniziali, l’album si ammanta di gran parte di quello che può essere collegato alle tradizioni AOR di classica fattura, citando in rapida sequenza una serie di ispirazioni senza dubbio stimolanti per gli appassionati ed amanti del genere.
Danger Danger, Trixter e Tyketto, ma pure TNTHarem Scarem (non a caso, band con cui Veratti e compagni hanno recentemente condiviso il palco) ed i connazionali Hungry Heart, possono essere a buon titolo i nomi eletti quali punti di riferimento di più immediata catalogazione, utili al fine di fornire una coordinata stilistica pertinente e consona al sound offerto.

Piacevole, levigato, solare e – come già sottolineato in precedenza – molto elegante, l’AOR degli Old Man’s Cellar si profila come il classico ascolto che piace al primo impatto e si propone favorevolmente per qualche passaggio in sequenza: colpiscono con immediata efficacia l’iniziale title track e la “moderna” “Don’t Care What’s Next” (brano che ricorda più di qualcosa dei Labyrinth), così come l’incedere amichevolmente gioioso della gaudente “Rain Talk” e le arie blueseggianti della sentita “Knees On The Straw”, momento in cui non pare azzardato l’accostamento con Danny Vaughn ed i suoi Tyketto.
Episodio che, ad ogni buon conto, ci sentiamo d’indicare come meglio riuscito della serie, è senza dubbio l’avvolgente “Amber Lights”, traccia che per merito dell’ottima interpretazione di DC ed in virtù di una linea melodica “sognante”, intercetta le medesime atmosfere care ai grandi Danger Danger del primo, indimenticabile ellepì.

Buon disco che, pur con qualche calo di tensione nel finale, non manca tuttavia di concedersi un pizzico di brio in più proprio nella conclusiva “Undress Me Fast”, pezzo che conferma l’atavica ed incontenibile attrazione del quintetto per la musica “made in ‘80’s”.

Esordio fascinoso e gradevolissimo per questa interessante realtà italiana: molte melodie azzeccate, bagaglio tecnico rispettabile ed una manciata di buone canzoni.
La strada è senza dubbio quella giusta…

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