Recensione: Damnation Alley

Di LeatherKnight - 21 Aprile 2002 - 0:00
Damnation Alley
Band: Bitch
Etichetta:
Genere:
Anno: 1982
Nazione:
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63

Sfatando il bigotto luogo comune che fa dell’Heavy Metal un genere a totale appannaggio del solo pubblico maschile, col tempo si sono affermate figure “fottutamente” femminili che –chi più, chi meno– sono riuscite a sfaldare certi pregiudizi e a confezionare albums di tutto rispetto, degni di esser ricordati attraverso gli anni.

Andando a spulciare nelle uscite di “secodaria importanza” (o per meglio dire “tra i dischi non fondamentali”) delle due decadi passate, tra le varie eroine dell’hard ‘n’ heavy a stelle e strisce (Lee Aaron, Lita Ford, Ann Boylenn e Leather Leone su tutte), non è per niente brutta l’idea di andare a ripescare il nome di Betsy e della “sua” band: i Bitch.

Con un nome così spudorato e provocatorio, il combo californiano sbarcò in casa Metal Blade records (all’epoca poco più che neonata) e ben presto diede alle stampe uno scoppiettante ep di debutto, anch’esso fortemente allusivo e di efficace impatto sul pubblico HM del periodo e non, governato sempre da una maggioranza schiacciante di testosterone.

Per molti gruppi degli anni 80, il debutto rimane quasi sempre il capolavoro della band. Questa “regola” potrebbe essere anche applicata in questa occasione. Non che “Damnation Alley” sia chissà quale masterpiece qualitativo, anzi, è un dischetto mediamente interessante con buoni spunti; ma decisamente superiore e più coerente con il resto della discografia di questo combo a stelle e strisce.

Il sound dei Bitch è un classic metal abbastanza frizzante per i tempi, con vaghe sfumature hard rockeggianti, il cui trademark comunque sta nel timbro suadente e acceso della vocalist e nello stile (facilmente riconoscibile) dell’axeman
David Carruth. Tutti i brani di questo Ep fluiscono scorrevolmente, senza raggiungere mai punti morti né momenti fiacchi; questo anche nei passaggi più lenti (“He’s Gone”).
Le parti più interessanti sono di sicuro la stupenda titletrack (che inaspettatamente scoppia con un chorus irresistibile) e l’articolata “Live for the Whip”. Quest’ultimo è appunto il pezzo dove meglio i Bitch mostrano le loro potenzialità e clichés: la canzone si snoda attraverso continui cambi di tempo, facendo affiorare anche qualche bell’intervento chitarristico di Carruth, raggiungendo il top quando Betsy finge (?) un orgasmo sotto il colpi dell’altrettanto finta (??) frusta che si sente sferzare la bella cantante, per poi affidare la conclusione all’attacco sonoro degli altri componenti.
Roba che purtroppo si registrava negli anni 80. Chissà perchè poi…

Un bel dischetto, insomma. Nulla di storico o fondamentale, eh…ma non rischiate nulla di grave se vi spassate con un
po’ con la musica dei Bitch…

Leopoldo “LeatherKnight” Puzielli

1) Saturdays
2) Never Come Home
3) Damnation Alley
4) He’s Gone
5) Live for the Whip

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