Recensione: Damned If You Do

Di Marco Tripodi - 7 Dicembre 2018 - 8:00
Damned If You Do
Band: Metal Church
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2018
Nazione:
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59

Album numero 12 della Chiesa Metallica, quinto della loro storia con Mike Howe al microfono, secondo del nuovo corso intrapreso con “XI“, che ha visto appunto il ritorno all’ovile di una delle voci iconiche delle band, la più importante ed amata probabilmente dopo David Wayne. Era lecito aspettarsi molto da questa mini reunion (i membri della formazione originale attualmente in forza al gruppo sono solo il sempiterno leader Vanderhoof e Howe), se non altro per quanto di buono realizzato assieme nel passaggio dagli anni ’80 ai ’90. Già “XI” non aveva esattamente sconvolto i fedeli del culto, l’odierno “Damned If You Do” purtroppo conferma il minimalismo di questa resurrezione, sempre per rimanere ad una terminologia religiosa. Siamo lontani anni luce dallo splendore di “Blessing In Disguise” o “The Human Factor“, ma proprio sideralmente distanti. “Damned If You Do” non ha un songwriting in grado di competere e non ha una produzione che lo valorizzi. Magari ha lo spirito giusto, quello propositivo e costruttivo dei vecchi Metal Church, tutto il resto manca clamorosamente all’appello. I suoni scelti da Vanderhoof, in particolar modo per le chitarre, sono troppo pulitini, cristallini, un po’ di sporcizia e ruvidezza in più non avrebbe affatto guastato, anzi. Riguardo alle canzoni, siamo tra il modesto e il trascurabile. Onestamente non ci sono brani entusiasmanti da segnalare, perlomeno a mio giudizio. Carine “By The Numbers“, “Out Of Balance“, la title-track (meglio le prime due, peggio l’ultima), credo non a caso scelte come biglietto di presentazione dell’album; rimane poco altro, è davvero esiguo il margine di fervore ed eccitazione che l’intero lavoro è in grado di smuovere nell’ascoltatore, tanto più se trattasi di storico e affezionato fan della Chiesa.

Mike Howe ce la mette tutta, anche se assomiglia sempre più a Bobby “Blitz” Ellsworth che al cantante di “Date With Poverty” e “The Powers That Be“. I comprimari di Vanderhoof lavorano con impegno, assolvendo con dedizione ai desiderata del capo, ma certo non aggiungono la benché minima scintilla al flavour generale. Vanderhoof da par suo tesse un riff dietro l’altro che dimentichiamo nella stessa identica sequenza, uno dietro l’altro. Fiacchi anche i chorus. Si prenda paradigmaticamente ad esempio quello di “The Black Things“, è un pezzo che sulle prime promette bene, pare proprio che la voglia di scapocciare salga su dalle budella fino ai muscoli sottopelle; la progressione però non arriva mai a compimento. La strofa si travasa nel ritornello (e poi torna ad essere strofa) senza il minimo climax, senza un crescendo emotivo degno di tale nome, senza passione, un ordito che scorre liscio, piatto ed indolore. Si giunge alla fine dei 5 minuti e 16 con l’impressione che tutto ciò che sarebbe potuto essere non è stato. Quando è che arriva il cazzotto nello stomaco? Me lo sono perso, non è arrivato e la canzone è finita. Più in generale va così per tutto il disco, i primi 20 secondi di ogni brano prefigurano cose positive che sistematicamente poi appassiscono con il proseguire del minutaggio. Aspetti, aspetti e aspetti, ed è l’intero disco ad essere finito. Non è roba da Metal Church, non quelli degli album sopra menzionati. E’ tutto molto ordinato, compito, incasellato, decisamente più in scia di titoli recenti come “This Present Wasteland” e “Generation Nothing” che di quelli pubblicati tra l’84 e il ’93. Al confronto “Masterpeace” – l’altro album del “ritorno al glorioso passato” – è stato un capolavoro d’arte moderna sul serio, una sorta di “Led Zeppelin IV“.

Sono molto deluso dallo stato di forma dei Metal Church, sembrano un ex alcolista completamente disintossicato che beve solo acqua minerale e spremuta d’arancia. Continuano a sfornare album dopo album, addirittura recuperando membri storici (e di assoluto valore come Howe) ma la quadratura del cerchio non arriva. “Damned If You Do” è modesto, essenziale, parco, stiracchiato, ordinario, gracile. “Revolution Underway” pare un pezzo dei Saxon, scambiate la voce di Howe con quella di Byford e ci sarà poco altro a distinguere le due band. Quante ne avete (già) sentite come “Guillotine” e “Monkey Finger“? Quanto è anonima “The War Electric” (a dispetto del roboante titolo)? Può andar bene così? Dipende dalle aspettative, dipende quanto un album come “Blessing In Disguise” a suo tempo vi sventrò vene, capelli e capillari lasciandovi esausti ed esangui sul pavimento. Il monicker è lo stesso, potenza ed impatto sono radicalmente cambiati, difficile accontentarsi.

Marco Tripodi

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