Recensione: Dance Of Druids

Di Stefano Usardi - 6 Aprile 2016 - 8:00
Dance Of Druids
Band: Fferyllt
Etichetta:
Genere: Folk - Viking 
Anno: 2009
Nazione:
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65

Esordio discografico per i Fferyllt, ensemble russo dedito a un bel folk metal che, dopo il demo “A Celtic Tale”, si presenta agli occhi del mondo con questo “Dance of Druids”.

Il crepitio di un fuoco ci accoglie, mentre pian piano il suono di un’arpa e di una cornamusa ci guidano attraverso la classica intro d’atmosfera che spiana la strada a “Night of the Woodgod”, prima vera canzone dell’album. Una rullata marziale scandisce un’ipnotica melodia, bruscamente interrotta dall’irruzione in scena dello screaming raschiante di Ragnar e dalla liricheggiante Astrid. Le voci dei cantanti si alternano su un motivo godibile e danzereccio, semplice ma efficace, che supplisce egregiamente al compito di opener con i suoi ritmi sostenuti e le chitarre corpose. “Following Skadi” scompagina subito le carte in tavola con un inizio invece più cadenzato e solenne. Nonostante le sporadiche accelerazioni, la canzone manterrà per tutta la sua durata quest’aura suggestiva e quasi cerimoniale, complice anche l’ottimo lavoro delle tastiere e la voce a suo modo ammaliante di Astrid.
Il suono del bodhran introduce la title-track, con cui si torna a un ritmo più movimentato, ma non per questo meno suggestivo. “Dance of Druids” è la classica canzone folk metal: ritmo sostenuto, buone accelerazioni e momenti più evocativi, con Astrid padrona della scena anche quando viene accompagnata nel suo incedere da flauti e cornamuse. La danza dei druidi si fa incalzante nel finale, salvo poi interrompersi bruscamente e cedere il passo alla più raccolta “Autumn’s Gold” che, come “Following Skadi”, fa dell’atmosfera e della solennità il suo punto di forza. Il tenore della canzone è malinconico, con la sola Astrid inizialmente accompagnata da tastiere e chitarra acustica mentre canta, dalla riva di uno specchio d’acqua, la devastazione che l’invasore ha portato alla sua terra e la corruzione dei propri sovrani, che si sono fatti accecare dallo splendore dell’oro sbagliato. Anche quando subentrano le chitarre elettriche la composizione mantiene il suo tono elegiaco per una terra sconvolta.
Con “Warriors of Ireland”, introdotta da grida di guerra per radunare i soldati, si torna a picchiare sull’acceleratore: Ragnar si impossessa del microfono e, sorretto da un bel riff trascinante e tastiere battagliere, parte con la rabbia di chi vede il nemico davanti a sé gli si fa incontro per cacciarlo dalla propria terra. La canzone, la più lunga dell’album, alterna momenti più incalzanti e rabbiosi ad altri più solenni e cadenzati, con le voci di Ragnar e Astrid che, man mano che la canzone prosegue, si cercano e si alternano sempre più, per arrivare ad un bel botta e risposta nel finale.
Altra canzone, altro cambio di tono. “Jule” vede il ritorno di Astrid come voce dominante e, con essa, si torna alla solennità di una canzone molto cadenzata, in cui la cantante alterna impostazione liricheggiante e più leggera per decantare la vita e il destino del popolo nordico, in quello che alla fine si può considerare un bell’intermezzo. Un intermezzo che ci conduce dritti dritti a “Winds of Trondhemsfjorden”, canzone più aggressiva ma che tratta anch’essa di orgoglio vichingo, battaglie, razzie e, in generale, “vittoria o morte”. La presenza delle due voci raggiunge qui il suo perfetto bilanciamento: Ragnar e Astrid si alternano, si cercano e si intrecciano come raramente avevano fatto nel resto di “Dance of Druids”, dando così vita ad uno degli episodi più riusciti dell’album. Gli altri strumenti non sono, però, da meno e trovano il loro spazio e s’incastrano in maniera ottimale, risultando perfettamente identificabili e ritagliandosi il loro piccolo momento nell’amalgama della canzone.
Chiude questo “Dance of Druids” “Gjallarhorn”, mid tempo sorretto da una buona ritmica e tastiere mai invadenti che, però, alla lunga, risulta un po’ troppo monotono ed inconcludente, brutta cosa se si parla di una traccia di chiusura che, quindi, dovrebbe apporre il sigillo finale a una composizione.

Due parole sulle cover che chiudono l’album, “Lai Lai Hei” degli Ensiferum e “Inis Mona” degli Eluveitie: personalmente non amo moltissimo le cover, a meno che non vengano in qualche modo reinterpretate per rendere in modo diverso e più personale una melodia nota. In questo caso le due canzoni sono riproposte in modo pressoché identico all’originale e, sebbene godibili e ben suonate, non aggiungono nulla a quanto sentito finora.

In conclusione “Dance of Druids” è un buon album, ben suonato e molto godibile, sebbene non esente da difetti: il principale è che, pur proponendo qualche buono spunto qua e là, non si discosta minimamente dai classici stilemi del genere, risultando pertanto simile a decine di altri album. Le due voci, inoltre, non si trovano molto spesso, limitandosi il più delle volte ad alternarsi senza trovare il giusto amalgama tra voce pulita e scream, con l’evidente predominio della prima ai danni di Ragnar, troppo spesso in secondo piano. Ciò detto l’album mi è piaciuto, ed anche a distanza di anni dal primo ascolto non ha perso il suo appeal, ma credo che il suo bacino di utenza sia limitato ai die hard fans del folk metal.

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