Recensione: Dancing With Danger (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 14 Settembre 2013 - 16:09
Dancing With Danger (Reissue)
Band: Streetheart
Etichetta:
Genere: Hard Rock 
Anno: 2012
Nazione:
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85

La genesi di un album è un’operazione complessa e, talvolta, travagliata, alla quale contribuiscono in misura diversa ingegno, tecnica e, non ultime, spontaneità ed ispirazione, elementi decisivi per concepire un vero masterwork…

il segreto consiste nel creare un riff appagante e innovativo, inserti chitarristici memorabili e ammiccanti, come testimoniato da capisaldi immortali del rock duro quali “Whole Lotta Love” (Led Zeppelin) o “Back In Black” (AC/DC).
Lontani dal clamore della scena internazionale, gli Streetheart, canadesi di nascita, rivendicano a buon diritto le abilità menzionate, pur rimanendo uno dei gruppi più influenti e trascurati in Europa e, cosa ben più grave, negli States.
Il progetto vede luce per volontà di Daryl Gutheil (tastiere) e Ken ‘Spider’ Sinnaeve (basso), i quali trasferitisi a Winnipeg, fondano il nucleo originario (gli Witness) arruolando il carismatico singer Kenny Shields, riconoscibile dalla timbrica roca ed enfatica. Tuttavia, solo nel 1977, con la partecipazione di Paul Dean e Matt Frenette, il combo si ribattezza Streetheart e pubblica l’anno seguente l’esordio “Meanwhile Back In Paris”, seguito dal ben più famoso “Under Heaven Over Hell” (1979), che registra i primi successi grazie al singolo “Under My Thumb”, cover della hit di “casa” Rolling Stones.

Dopo il platino per “Drugstore Dancer” (1980) e doppio platino per l’omonimo LP (1982), giunge il momento più difficile: il confronto con il pubblico americano.
L’ingrato compito venne “affidato” al sesto e ultimo album in studio, “Dancing With Danger”, che al di là delle aspettative (ampiamente deluse, come rivelò il frontman), rimane un testamento di melodia e potenza heavy rock senza cedimenti lungo tutta la tracklist.
“Dancing With Danger”, è bene dirlo, fu segnato da profondi cambiamenti rispetto alle produzioni passate: in primo luogo, testimonia l’entrata del funambolico chitarrista Jeff Neill e la sostituzione dell’abile batterista Herb Ego con il più tellurico Billy Carmassi (fratello di Denny Carmassi, storico drummer dei Montrose, Gamma e, tra l’altro, degli Heart); in secondo luogo, vengono introdotti synts (anni prima dello sperimentale “Turbo” dei Judas Priest) e un uso maggiore delle tastiere, per arricchire il sound e ammorbidire la verve hard rock, senza rinunciare all’inflessione street che permane nel riffing graffiante e adrenalinico.
Questo carica primordiale di melodia e forza espressiva è il sunto della title track (reinterpretata da Ace Frehley in “Second Sighting”): le sferzate della batteria di “Dancing With Danger” si infrangono con il riff rutilante della sei corde; in questo collettivo l’impeto abrasivo di Kenny Shields trova la sua giusta collocazione, donando espressività grezza e spinta al pattern, che raggiunge l’apice nello sguaiato chorus, riuscito mix tra “metal rock” e riverberi melodici.  

E non è un caso che l’impostazione del lavoro ricalchi l’inizio del contemporaneo “Metal Health” dei Quiet Riot: infatti, in cabina di regia siede il capace Spencer Proffer, produttore losangelino, il quale, come nel celebre best seller, decide di collocare accanto all’opener, dura e vibrante, uno shot modellato su armonie accattivanti e seducenti.
Se, dunque, per i QR il binomio “potenza e melodia” era perfettamente rappresentato dal duo “Metal Health/ Cum On Feel The Noize”, per gli Streetheart il degno contro altare di “Dancing With Danger” prende il nome di “Comin’ True”: è possibile tacere l’alchimia che nasce tra le linee euforiche e passionali del chorus e l’energia sprigionata dalla sei corde? La risposta alla domanda è superflua poiché si rimane schiacciati dall’impeto della strada (il sospingere minaccioso del drumming) e succubi dell’eros sgraziato delle ruvide linee vocali, che mutano nell’entusiastico ritornello, un vero e proprio incitamento a realizzare i propri sogni contro ogni avversità (Comin’ true, the dream is alive/ Wake up and spread the news/ Comin’ true, we’re finally alive and the dream is comin’ true…).
Il randevous tra vigore e pathos riprende con “You’re Not The Only One” e “Don’t Let Her Leave You”, una partnership che riassume il concetto di dualità, topos ricorrente in tutto il platter, custodito nello stesso monicker (Street-heart): l’attitudine selvaggia e pulsante di “You’re The Not The Only One” toglie il respiro grazie all’esecuzione frenetica della chitarra e alla batteria rocciosa che non dà tregua, un combo irrefrenabile che neppure l’armonia delle keyboards può placare.  

Dall’altra parte, le tematiche (un’esistenza combattuta e sofferta, un amore agognato) acquistano sfumature più tenui e meno impetuose in “Don’t Let Her Leave You”, dove si può assaporare il gusto raffinato per le grandi ballad tipico degli Scorpions (impresso nelle note dei tasti e dipinto dalla sei corde).
Se “Comin’ True” racchiudeva uno spirito gioioso e carico di aspettative, “Midnight Love” sancisce la fine di una lunga attesa e la realizzazione dei propri sogni più reconditi: le tastiere irrequiete (simbolo d’incertezza) vengano infrante dalle brevi e poderose percosse del drummer (l’irruenza delle emozioni), poco prima che i backing sguaiati si elevino urlando le loro pulsioni (…Sensation!…); le linee vocali mutano e modellano un repeat brioso, diviso tra la breve sezione corale e la strofa trainata da Shields.    
Come da copione, il lato sanguigno del rock non può essere trascurato: esalta scoprire come i Black Sabbath e Russ Ballard possono convivere tra i solchi di un’unica canzone, Underground, dove i primi si insinuano nelle note del basso vizioso (“Lady Evil”) mentre il cadenzato ritornello richiama vagamente le “movenze” di “Tonight” (in seguito coverizzata dai Tokyo Blade nell’album omonimo).
Ancora una volta l’album si ripresenta con una “doppia pelle”, alternando tiro e armonia nel quartetto posto in chiusura: Too Hot To Stop è programmatica ed esprime la forza del proprio messaggio nella ritmica serrata, nell’inseguimento frenetico delle chitarre e nell’allusiva ossessione del ritornello.

“Night Writer” ha, invece, una anima “crepuscolare”: l’inserimento dell’hammond è un flashback spiazzante per l’ascoltatore di heavy rock, che viene riportato al presente dal suono compatto e attuale della batteria; per pochi istanti i ricordi passati indugiano per poi lentamente sfumare mentre la chitarra si insedia con assoli emergenti e sostenuti (mai eccessivamente prolungati). L’interpretazione di Shields è inizialmente suadente e lasciva per diventare lacerante e disperata nell’esclamazione del titolo, alla quale si aggancia il repeat sostenuto dal chorus, dalla tonalità calde e intense, l’ideale per dar sfogo alle melodie sofferenti che il guitar solo è in grado di offrire.   
La strada delle emozioni forti termina con l’accoppiata “Leave Me Alone”“Have It Your Way”: i piatti e le tastiere in apertura vengono graffiate dalle chitarre, svanite nel successivo mid tempos, una calma diluita dalla sessione ritmica; la voce della sei corde riacquista quota fuggendo con i fedeli vocals al seguito; l’ultima parola va alla chitarra, sussultante nei vibrati e aggraziata negli assoli di chiusura.
“Have It Your Way” rappresenta ciò che in futuro verrà chiamato power ballad: l’incedere plumbeo delle tastiere e dei synt lugubri fanno da sfondo a un Kenny Shields accorato, quasi sospirante, un bagliore di afflato melodico che rifulge sulle keyboards sfiorate dal tintinnio dei piatti.
All’urlo di Shields l’atmosfera surreale si incrina e, con il prorompere delle chitarre, le voci corali gioiscono; la strofe si ripetono ma questa volta è la voce profonda e contagiosa la protagonista assoluta, relegando gli altri musicisti al ruolo di soavi voci di contrasto.    

L’album ottenne un disco d’oro in Canada ma non riuscì a imporsi nel mercato statunitense: qualcuno volle vedere la colpa del mancato successo nel prematuro tracollo della label Boardwalk Records. La Boardwalk Records, fondata dall’ex-boss della Casablanca, Neil Bogart, venne travolta dalla morte improvvisa del proprio manager, impedendo la promozione degli Streetheart sul mercato americano. Per coprire le spese di produzione, la band fu costretta a correre ai ripari registrando un live di commiato, dal nome interlocutorio “Live After Dark”, ideale epitaffio della carriera.
Che dire? Un disco interlocutorio fin dal titolo, che suggerisce come il mondo della musica, con le sue avversità, può essere specchio fedele della vita.   

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