Recensione: Dark Chambers Of Déjà Vu

Di Simone Volponi - 16 Novembre 2015 - 0:00
Dark Chambers of Déjà Vu
Band: Sebastien
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2015
Nazione:
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80

Questi ragazzi della Repubblica Ceca rappresentano e continuano a rappresentare, a giudizio del sottoscritto, una delle migliori rappresentazioni del power metal moderno. La storia dei Sebastien nasce dall’incontro con l’ex-Helloween Roland Grapow, trasferitosi da alcuni anni in quel di Praga, dove gestisce il proprio studio di registrazione dedicandosi all’attività di produttore. Proprio sotto la guida esperta di Grapow, i Sebastien debuttarono nel 2010 con l’ottimo “Tears Of White Roses”, un gioiellino che resiste alla forza del tempo risultando un valido ascolto ancora oggi.
Dopo cinque anni passati ad affilare le armi in tour, i nostri si ripresentano sul mercato con questo “Dark Chambers of Déjà Vu“, sempre prodotti da Grapow, mantenendo in pieno le promesse del debutto, regalandoci tredici tracce (più due bonus dal vivo) di pregevole fattura. Uno dei punti di forza è la performance del leader George Rain, che si fa anche carico del songwriting insieme all’ottimo chitarrista Andy Mons. Ebbene, Rain non è un “sirenetto” in cerca d’imitazione dei vari Kiske o Kotipelto, piuttosto la sua prova si contraddistingue per pathos ed intensità, ricordando a tratti il miglior Tony Kakko, oppure il sottovalutato ex Riot e Masterplan Mike Dimeo.

La partenza mette in chiaro le cose: “Strangers At The Door” è un pezzone, tirato il giusto, dotato di un’ottima melodia e di un ritornello arioso che rimane in testa. Bello anche il controcanto in growl, mentre una menzione va fatta anche per l’assolo gustoso e personale di Andy Mons. Piace “Crucifixion Of The Heart”, mid tempo in stile Masterplan, accompagnato in sottofondo dal pianoforte, strumento importante nell’economia del suono dei Sebastien. Un setntito “bravo” quindi anche al tastierista Pavel Dvorak.
Uno degli highlights del disco è senza dubbio “Lamb Of God“, dove appare come guest star l’ex Black Sabbath Tony Martin, uno che meriterebbe di essere rilanciato in grande stile. La traccia segue le traiettore care ai Sebastien: intensità, emozioni, condite da orchestrazioni mai tronfie. Passaggi acustici aumentano il coinvolgimento e funziona l’intreccio sapiente tra i due vocalist.
Da segnalare “Sphinx In Acheron” aperta dalle tastiere, secondo un imput stilistico già presente sul debutto.Siamo alle prese con un altro mid tempo cantato con rabbia e grinta dal’ottimo George Rain, raggiunto nell’ennesimo ritornello azzeccato e nelle seguenti strofe dalla voce dolce di Marlyn Rya Poemy, a me sconosciuta, ma senz’altro dotata. Bellissima “Frozen Nightingales” la più sostenuta del lotto, con una parte centrale molto oscura e pesante dove apprezziamo il drumming di Martin Skaroupka (Cradle Of Filth) ospite per tutto l’album, mentre nella line up ufficiale figura Lucas R., fratellino del cantante.
Altro picco è “The Ocean” complice la presenza di quel fuoriclasse di Zak Stevens (Circle II Circle, ma soprattutto ex-Savatage). C’è poco da fare, quando scende in campo la sua voce profonda, drammatica e intensa i brividi sono assicurati. Il pezzo poi è valido, decisamente, nello sfruttare il crescendo trascinandoti in un’atmosfera di tetrale dolore… e ti ritrovi così a cantare insieme a Zakk (e a George Rain), riascoltando il brano decine di volte. Applausi.
La parte finale dell’album è contraddistinta da altre tracce vincenti. “Man In The Maze” che dimostra la capacità dei Sebastien di picchiare duro, e dove torna il growl ad affiancare George Rain, “The House Of Medusa” martellante e rabbiosa, baciata da un grande refrain. E poi la doppietta conclusiva con “My Deepest Winter” e “Last Dance At Rosslyn Chapel”. La prima , dall’intro inquietante, vede la partecipazione del produttore Roland Grapow, che stavolta non imbraccia la chitarra ma canta. Non conoscevo la sua voce, non sapevo neanche sapesse cantare, e invece… il suo tono acido, quasi da vecchia strega, funziona (mi ha ricordato l’amico Kai Hansen). L’ultima traccia invece è una ballad romantica, dall’atmosfera cortigiana: chitarra acustica, tappeto orchestrale e duetto con la fanciulla di turno, Ailyn Gimenez dei Sirenia.  Anche il debut si concludeva in tal modo, ed è così che vogliono lasciarci i Sebastien, con una nota di malinconia.
Nelle tracce bonus potrete trovare la versione live di “Dorian“, tratta dal primo album, e “Headless Cross“, anch’essa live e in duetto con Tony Martin.

“Dark Chambers of Déjà Vu” è un gran disco, senza mezzi termini. I Sebastien sanno scrivere belle canzoni (e non è poco), hanno il gusto per la melodia, un cantante convincente con un suo stile e un chitarrista ispirato, dagli assoli “vivi” e sentiti, che non sbrodola note per mero autocompiacimento. Questo vi deve essere sufficiente per dar loro una chance. Ne vale decisamente la pena. 
Buon ascolto e forza Sebastien, nella speranza di non dover attendere altri cinque anni per godere di un altro gioiello come questo “Dark Chambers of Déjà Vu”.


 

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