Recensione: Dark Deceiver

Di Alessandro Marcellan - 3 Aprile 2009 - 0:00
Dark Deceiver
Band: Zero Hour
Etichetta:
Genere:
Anno: 2008
Nazione:
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81

Dopo aver archiviato con soddisfazione “Specs of Pictures Burnt Beyond”,
disco che aveva determinato un deciso rientro in carreggiata per gli Zero Hour,
si trattava di verificare se la fuoriserie dei californiani aveva ancora il
piglio “da corsa” o se il motore si era nuovamente inceppato, come ai tempi del
controverso (anche per motivi extra-musicali) “A Fragile Mind”. E c’è da
dire fin da subito, per sgombrare ogni possibile dubbio o timore, che
fortunatamente i gemelli Tipton, pur restando ancorati ad uno stile personale e
riconoscibile fin dai primi ascolti, in questo nuovo album guardano risoluti in
avanti, con un certosino lavoro di studio e uno sforzo compositivo per certi
versi paragonabile a quello che aveva reso possibile il masterpiece tuttora
insuperato della band, “Towers of Avarice”, realizzando con questo “Dark
Deceiver
” il loro disco più ostico, aggressivo e articolato.

E così, accanto alla consuetudine di scale ossessive e veloci in sweep-picking,
incessanti riffs in controtempo, ritmi sincopati, melodie claustrofobiche e
tecnicismi vari, le atmosfere di questa nuova creatura si fanno ancor più
taglienti ed oppressive, aggravando la digeribilità del sound anche come
esasperazione tecnica, soprattutto a livello di incastri strumentali. In
particolare, la chiave di volta del nuovo disco, oltre ad una maggiore irruenza
di base sospinta da un ricorso più frequente a sottolineature in power-chords e
doppia cassa, va ricercata in un riffing indubbiamente più variegato del
consueto e nella scelta compositiva che inquadra in Troy Tipton l’assoluto
protagonista, con il suo basso che in quest’occasione si emancipa spesso e
volentieri dall’unisono “di routine” con la plettrata “spazzolata” del fratello
Jasun, viaggiando a ruota libera su linee malate e virtuose e solo
apparentemente fuori tema: un elemento che, coadiuvato dalle particolari opzioni
adottate per le linee del cantato e da un Mike Guy al solito scevro dallo
scandire tempi lineari, va ad accentuare le tendenze poliritmiche di un
songwriting già di per sé complesso.

La prima parte del disco, la più recente come composizione e anche la più
“sperimentale” (oltre che più corposa come durata), illustra al meglio quanto
appena premesso, appoggiandosi liricamente ad un mini-concept sugli Indiani
d’America che coinvolge le tracce 1, 3 e 4 della scaletta: 1) “Power to
Believe
”, con le sue deliranti linee di basso, le ardite linee vocali
-talvolta a tre voci- di un Salinas al massimo dei suoi mezzi tecnici (fra
superbassi, ultrasuoni e accenni quasi scream), e i cori da arena del
travolgente finale; 3) la lunga “Inner Spirit”, ipotetica degna
rappresentante di uno “Zero Hour sound”, con i suoi riffs stralunati e
l’estremizzazione dell’ossessività e delle sezioni dilatate (per lunghi tratti
il pezzo indugia su un medesimo accordo di base) interrotte da una ormai tipica
parte centrale melodica ed arpeggiata (e attenzione a certi filtri robotici
quasi in stile Cynic); 4) “Resurrection”, con le invocazioni degli
spiriti Nativi che si stagliano nelle gradevoli melodie in crescendo di una
strofa ripetuta otto volte (ma gradualmente arricchita da elementi aggiuntivi),
in mezzo a raffiche di note di chitarra abbinate al basso stoppato di Troy
Tipton.
Le caratteristiche di aggressività avevano però trovato il loro compiuto sbocco
già nel singolo d’apertura dell’album, ovvero la travolgente title-track “Dark
Deceiver
”, autentica mazzata sui denti di nevermoriana memoria,
sapientemente ricondotta allo stile Zero Hour nelle chitarre sovraincise e
nell’alternanza di doppio pedale e patterns di batteria più ricercati. Il testo
“horror” del brano ha fornito anche lo spunto per la copertina del disco, che ne
costituisce l’ideale trasposizione grafica: come spiegato da Jasun Tipton, esso
narra di un uomo che, in un incubo notturno, uccide la propria ragazza, salvo
poi risvegliarsi ritrovandosi davvero con un coltello in mano e con la donna
ricoperta di sangue.

A fare da spartiacque, prima della sezione conclusiva dell’album, un intermezzo
strumentale di solo basso che, pur risultando probabilmente superfluo
nell’economia del disco, nasce da un simpatico aneddoto in studio: la
circostanza vede coinvolto Cameron Alden, il figlio di 7 anni del produttore
Dino Alden, che va ironicamente ad introdurre “Troy Boy” (il nomignolo con cui
da ragazzino veniva chiamato Troy Tipton in famiglia) con quest’ultimo che,
quasi schernendo il Joey DeMaio che scaccia i false-metallari, pare voler
esorcizzare con una serie di tecnicismi estremi la tendinite che lo affligge da
qualche tempo (da cui anche il sarcastico titolo “Tendonitis”).

L’ultima parte del full-lenght è costituita invece da brani la cui scrittura è
precedente alla pubblicazione di “Specs of Pictures Burnt Beyond”, del
quale infatti essi sembrano rappresentare una coda e un’evoluzione nel senso
auspicato a suo tempo: in pezzi come “The Temple Within” e, soprattutto,
la notevole “The Passion of Words”, il rapporto fra varietà
ritmico/armonica, aggressività e melodia (assolutamente fantastico il passaggio
in cui Salinas recita “…bringing me down…”) raggiunge la sua completa
maturazione. Anche il semi-refrain evocativo/corale e le percussioni a “sonagli”
della breve “Lies” rientrano nel concetto appena esplicato, mentre la
conclusione è affidata a una sorta di “outro” di scarsa utilità (“Severed
Angel
”), che sembrava promettere evoluzioni particolari con incroci
industrial-aggressivi alla Fear Factory, ma che si risolve alla fine in una
semplice e fugace riproposizione, in alternanza ad effetti sintetici, di alcuni
stacchi già sentiti in precedenza su “Inner Spirit”.

Gli Zero Hour di “Dark Deceiver” quindi non si fermano, anzi fanno un
nuovo passo in avanti, assalendo l’ascoltatore con un approccio più heavy,
diversificando maggiormente il riffing ed affinando le combinazioni armoniche e
ritmiche di strumenti e voce: il tutto all’interno di un impianto ormai
collaudato, e con il risultato di un sound ancor più personale (le influenze
Fates Warning, ad esempio, sono ormai molto vaghe). Se le dichiarazioni dei
gemelli Tipton lasciano trasparire la volontà di procedere nelle
“sperimentazioni” non escludendo un’ulteriore sterzata aggressiva, dobbiamo
anche ribadire, volendo essere pignoli, che un perfezionamento qualitativo dovrà
anche passare per un maggiore affinamento melodico delle linee vocali, che
potrebbero -come accennato anche a suo tempo- alternarsi di più fra passaggi
“cerebrali” e parti “ariose” ed emozionali, sfruttando così al meglio le quasi
infinite potenzialità della voce di Chris Salinas (magari anche coinvolgendo
maggiormente quest’ultimo nelle fasi di arrangiamento ed elaborazione dei pezzi:
va peraltro sottolineato che, in questa occasione, il singer è stato poco
partecipe anche a causa di problemi di carattere personale). Ma forse con gli
Zero Hour siamo incontentabili, perché sappiamo quanto valgono: una delle band
più originali dell’attuale scena prog-metal, a cui chiediamo ancora un piccolo
sforzo per sentirci totalmente appagati.

Alessandro Marcellan, “poeta73”

Tracklist:
1. Power to Believe (7:07)
2. Dark Deceiver (3:56)
3. Inner Spirit (12:18)
4. Resurrection (3:18)
5. Tendonitis (1:19)
6. The Temple Within (6:13)
7. Lies (3:20)
8. The Passion of Words (4:32)
9. Severed Angel (2:37)

Line-up:
– Chris Salinas / vocals
– Troy Tipton / bass
– Jasun Tipton / guitars
– Mike Guy / drums

 

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