Recensione: Dark Space III I

Di Daniele D'Adamo - 13 Settembre 2014 - 23:04
Dark Space III I
Band: Darkspace
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2014
Nazione:
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86

L’orrore per lo Spazio profondo si manifesta nuovamente, con tutta la sua intensità, vigore, veemenza.

La primavera scorsa, dopo sei anni di silenzio a livello discografico, è balenato infatti nell’etere il messaggio in codice binario che parecchi attendevano con impazienza: i Darkspace erano al lavoro per dare un seguito a “Dark Space III”, del 2008. E il seguito è arrivato: “Dark Space III I”, stampato con un’infornata di soli cinquecento CD dall’Avantgarde Music.  

“Dark Space III I” consta di tre episodi: “Dark 4.18”, “Dark 4.19” e “Dark 4.20”. Ciascuno dei quali abbracciante una fetta gigantesca del vuoto intergalattico. Diedri infinitamente lontani fra loro, ma allo stesso tempo sovrapposti, interconnessi, avvinghiati dalla distorsione dello spazio-tempo che produce i tunnel spaziali. Con un significato immediato: i Darkspace sono unici al mondo. Unici nel saper costruire un’entità che si nasconde nelle più remote regioni dell’Universo, abbarbicata su se stessa all’inconcepibile temperatura di zero della scala Kelvin. Entità che si chiama ‘sound’, mirabile creatura plasmata miscelando industrial, ambient e black metal in parti non uguali bensì crescenti. Sì, perché alla fine “Dark Space III I” è proprio black metal, in una delle sue forme più rare, preziose e progredite. Per ciò, i tre cosmonauti di Berna paiono percorrere continuamente avanti e indietro i ponti di Einstein-Rosen per proiettarsi nel futuro anteriore, attingere elementi musicali e quindi tornare al presente. Raggiungendo uno stato della materia senza né eguali né precedenti, nel panorama del metal iper-estremo attuale.   

La potenza evocativa dei Darkspace è probabilmente la caratteristica peculiare che si accompagna più da vicino all’unicità dello stile, giacché i sessantaquattro minuti di “Dark Space III I” coinvolgono la mente in maniera totale, assoluta, risucchiandola nel maelstrom degli effetti gravitazionali che si manifestano a causa della materia oscura. In fondo all’incommensurabile gorgo, alberga la paura primigenia dell’essere umano, irresistibilmente spinta verso l’orror panico dalle sagome senza volto di Zhaaral, Wroth e Zorgh. I quali, peraltro, rispetto al predecessore “Dark Space III”, progrediscono notevolmente in termini di resa complessiva sonora, sfrondando “Dark Space III I” da certi eccessi di caos che contraddistinguevano la produzione ad esso antecedente. Considerando che anche la pulizia del suono ha giovato di questo step di progressione, vien da sé intuire che, ora, ci sono tutte le premesse per godere appieno della spaventosa, esorbitante, impressionate quantità di musica immessa nel full-length. Potendo godere, per esempio nelle sezioni più arcane e melodiche di “Dark 4.20”, di strabilianti apparizioni mentali osservate, sempre, da luoghi in cui la materia si riduce a pochi atomi: supernove, giganti rosse, nane bianche, piogge di neutrini, gas interstellari, galassie. Vagando da un quadrante all’altro dell’Universo sconosciuto alla velocità dei blast-beats, prodotti dalla drum-machine che identifica, assieme al cupo rimbombo del basso umanoide di Zorgh, una sezione ritmica ossessiva ai limiti della psicosi ma pur’essa senza pari sulla Terra.    

Così facendo, esplorando le raggelanti e deserte strade dello Spazio sconfinato, i Darkspace si allontanano indefinitamente dall’Uomo, compiendo un tracciato iperbolico che tende asintoticamente alle regioni del Cosmo opposte a quella in cui ruotano Terra, Sole e Via Lattea. Raggiungendo, nell’orrorifico incipit di “Dark 4.19”, la misantropia allo stato puro. Vero e principale stato di alterazione della normale condizione sociologia dell’essere umano che incarna, mai come in questo caso, lo spirito più imperituro del black metal. Una lontananza siderale dal più vacuo barlume di umanità, resa in tali termini dall’agghiacciante ripetersi di riff iterati n volte. E anche quando il ritmo rallenta sino a raggiungere la velocità dei mid-tempo, non diminuisce certamente l’allucinazione cosmica. Anzi, è come se il freddo extraterrestre penetrasse con ancor più forza ed efficacia nelle radici dell’anima, annullandone la resistenza in minor tempo.

Una capacità di scatenare incubi a occhi aperti inenarrabile, quella dei Darkspace. Un’esoterica magnificenza che li rende di più, ancora una volta di più, ineffabili quanto imperscrutabili entità che si librano, come da loro natura, nell’atmosfera che gravita sui poli terrestri.  

Daniele “dani66” D’Adamo

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