Recensione: Dea

Di Vladimir Sajin - 13 Marzo 2017 - 0:01
Dea
Band: Catharsis
Etichetta:
Genere: Power 
Anno: 2001
Nazione:
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70

Formatisi a Mosca, in Russia, nel 1996, i Chatharsis sono dediti a un symphonic power metal dalla spiccata connotazione neoclassica. La band esordì con un primo EP, Proles Florum (1999), proponendo un doom metal duro e puro, ma già dal secondo EP, Febris Erotica (1999), cambiarono completamente rotta verso un neoclassical symphonic power metal. Nel 2001 arrivano al debutto con l’album Dea, disco che ci troviamo a curare in questa recensione. L’esordio sulla lunga distanza del sestetto russo si presenta carico di idee e proposte, mescolando magistralmente delicate melodie neoclassiche e un riff morbido, ma decisamente metal. Il facile paragone con nomi come Rhapsody e compagnia bella potrebbe risultare limitante, perché i Nostri propongono un sound diverso e per certi versi innovativo. La prima differenza sta nel fatto che la proposta dei Chatharsis è meno pomposa e risulta meno carica di orchestrazioni, ma, soprattutto, si nota la totale assenza dei cori, tanto cari alla maggior parte dei gruppi symphonic power di quell’epoca, e non solo. Ecco quindi che esce fuori un lavoro più snello, più pulito e in qualche modo più delicato, dove la melodia fa la voce grossa, o meglio, le varie melodie neoclassiche e barocche proposte. Tre brani dell’album, infatti, sono strumentali. La cosa più riuscita dei Catharsis è probabilmente il modo in cui riescono a conciliare il tutto, senza il “chiasso” della doppia cassa a “manetta”, accompagnata da orchestrazioni di decine di elementi e cori a tutto spiano. Diciamo che, senza gli elementi appena citati, i nostri risultano più snelli, e riuscire a trattare la musica classica in maniera così genuina è un gran bel colpo. Tutto ciò, rimanendo ben delineati nel panorama della musica a noi cara. Tanta musica, quindi, ed è meglio così. Certo, siamo solo al debutto e qualcosa da migliorare c’è. A partire dal cantante Oleg Zhilyakov, a cui muoviamo una delle prime critiche. Non che non sia bravo, ma diciamo subito che l’inglese non è il suo forte, e la maturità raggiunta in seguito è ben lontana. Ovviamente, intonato lo è, il timbro è adatto alla proposta musicale, è un musicista vero, lo si percepisce attraverso la dedizione che sprigiona. Lo stile, tirato e melanconico, che si denota già dai primi ascolti, non dà però l’impressione di essere voluto, bensì uscito in quella maniera per l’inesperienza e poca maturità del nostro buon cantante.

 

Entrando nel dettaglio, l’album inizia con Igni Et Ferro proponendo già dal primo minuto gli elementi sopra citati. Introduzione d’organo e poi subito riff di chitarre e assolo, accompagnati dal pianoforte di Julia Red, l’unica donna del nostro sestetto. Si nota subito la capacità compositiva, in quanto le melodie non si discostano mai l’una dall’altra, c’è sempre un nesso, un ritorno leggermente modificato di una struttura precedente, il tutto a ritmi elevati e mai noiosi. In sostanza, tutto il brano è un continuo susseguirsi di assoli tra chitarre e pianoforte. Incontriamo poi la prima strumentale dell’album, intitolata A Trip into Elysium. Un mid-tempo melanconico e utopico dove i chitarristi Anthony Arikh e Igor “Jef” Polyakov sfoggiano un’ottima tecnica e propongono il proprio modo di suonare neoclassical metal. Un bel brano, piacevole e scorrevole, che non travolge, ma scivola via con un certo piacere. Proseguendo l’ascolto, ci imbattiamo nel pezzo più lungo e complesso dell’album: My Love, the Phiery. Canzone ricca di atmosfere malinconiche ed eteree, ma, soprattutto, intrisa di un sapore rinascimentale e barocco. Ottima prova anche per il già citato Oleg Zhilyakov, che in questa track mette l’anima. Con Etude No. 1 A-moll for Piano, Op.1, seconda strumentale dell’album, troviamo una etude al pianoforte di tre minuti scarsi, ricca di virtuosismi ben riusciti. Pro Memoria è la canzone più heavy del lotto e, in questa traccia, possiamo ulteriormente notare la capacità dei Nostri di mescolare riff puramente metal, con la delicatezza della melodia della musica classica-neoclassica. Ottimo brano, tra i più riusciti dell’album. Dopo l’energia di Pro Memoria, ci imbattiamo nella ballad Silent Tears. Si nota immediatamente come i Catharsis si trovino a proprio agio con questa tipologia di brani. C’è tutto ciò che serve: la delicatezza delle melodie, la morbidezza delle chitarre, la dolcezza del pianoforte. Troviamo anche la teatralità di una voce narrante in chiusura di brano. Dea trova il proprio epilogo con …Into Oblivion, un’autentica coda strumentale che si muove tra pianoforte e il riff della chitarra ritmica. Un degno epilogo per un album che ha tra le migliori qualità proprio le melodie.

 

Dea è uno di quei tipici lavori che, se piacciono, faranno impazzire, altrimenti verranno abbandonati molto presto. Gli amanti del genere verranno probabilmente catturati dalle emozioni sprigionate dai ritornelli, dalle melodie ricercate e ispirate che si mescolano tra neoclassicismo e barocco. Chi non verrà fatto prigioniero da questa alchimia, potrebbe forse storcere il naso perché, come accennato in precedenza, il cantato è immaturo, qualche ingenuità nel songwriting è ancora presente e la produzione non è al top.
Per descrivere al meglio questo primo full length dei Catharsis, proviamo a paragonarlo al cigno nero: la delicatezza e le curve morbide dell’animale, racchiuse in un’atmosfera melanconica e dark.

 

My mind recalls the circle of black swans
They whirled around the lake and choose wax dolls
Which symbolized the torment of her heart
Dark birds were silent waiting for the judge.

 

Vladimir Sajin

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