Recensione: Death Dealer

Di Alberto Biffi - 28 Maggio 2010 - 0:00
Death Dealer

L’abito non fa il monaco. Quanta saggezza.

Il problema nasce quando ci si trova tra le mani una delle copertine più brutte della storia del rock, sminuente per qualsivoglia genere musicale e nondimeno fuorviante.
Un logo riconducibile maggiormente ad un videogame o ad una demo adolescenziale.

Stiamo parlando invece, di un gruppo che annovera tra le proprie fila l’ex batterista degli Sweet Savage, Davy Bates, stiamo parlando di un gruppo che ha come manager Jess Cox, il primo mitico singer dei Tigers of Pan Tang e padre e padrone dell’allora Neat Records.

La casa discografica di Newcastle, fondata nel 1979, fu probabilmente l’etichetta che maggiormente influenzò il movimento metal che stava (ri)nascendo dopo l’anarchico ciclone punk.
Gruppi come Venom, Raven, Blitzkrieg, vennero catapultati all’attenzione del mondo proprio grazie alla lungimiranza di Cox.
Sotto la sua egida suonarono i White Spirit del biondo Janick Gers, funambolico chitarrista che passando per Ian Gillan e Bruce Dickinson, approdò alla corte dei Maiden.

Dopo questa premessa dobbiamo ancora chiederci quale genere (incuranti della grafica del cd ) ci propongano gli Stormzone?
Dopo aver esordito con l’hard rock di “Caught in The Act”, pesantemente influenzato da Whitesnake e Rainbow, ma segnato negativamente da una produzione pessima, una copertina oscena (un vizio!) e composizioni altalenanti, i nostri irlandesi tributano ora la NWOBHM.
Influenze palesi e dominanti questa volta, sono quelle di Saxon, Maiden, Tigers Of Pan Tang (lapalissiano) e Diamond Head.

Ma inseriamo finalmente il cd nel nostro lettore.
Cercando di non addormentarci per un estenuante minuto e mezzo di nulla, in cui sembra che il pezzo debba decollare da un momento all’altro, arriviamo a scoprire un piacevole ibrido tra Maiden e Queensryche. Sette minuti per un brano d’apertura non sono comunque pochi, ci aiutano le 2 asce che nel finale in crescendo ci “distraggono” con ottimi solo incrociati di chiara scuola Harris & Co.
La chiusura “maideniana” (chiarissimo il tributo alla band di Bruce Bruce nel vocalizzo finale e nella chiusura strumentale) ci fa inevitabilmente muovere la testa e sorridere.
L’impressione iniziale è quella di ricevere una bottiglia di buon vino invecchiato.

E’ un regalo scontato, ovvio, per nulla “trendy” ma sempre e comunque apprezzato e ben accetto.
Le sonorità che sentiamo sono nel nostro DNA. E’ impressionante come ad ogni cambio di tempo, ad ogni accordo, ad ogni vocalizzo, qualcosa dentro di noi si muova, come se quantificassimo solo ora il tempo passato tra i solchi dei vinili dei nostri eroi.
Una disamina track by track è improponibile, in quanto i nostri amici irlandesi non sono certo (per usare un eufemismo) dei maestri nell’arte della sintesi.

Oltre settanta minuti è il minutaggio complessivo di questo “Death Dealer” che, con una media di sei minuti per brano, ci metterà a dura prova.
L’ascolto dell’intero album risulta estenuante ed ai limiti della fatica psico-fisica.
Dopo i primi sei episodi (e siamo già oltre i quaranta minuti) iniziamo ad odiare bonariamente la band, associandola al nostro caro amico che ci spiega la barzelletta ovviamente da noi già compresa, o alla nostra amabile nonnina che ci ripete lo stesso concetto per un ora.

Possiamo citare qualche canzone estrapolandola da questo autentico tour de force.
Evidenziamo la seconda traccia, dove troviamo in John “Harv” Harbinson un ottimo singer, cori decisamente “dickinsoniani” e un finale in che non può non rimembrarci “Die With Your Boots On”. E anche qui passiamo i sei minuti.
Molto bello anche il terzo brano, “The Memory Never Dies”. Buona performance da parte di tutti, ma niente che non si fosse potuto dire in un lasso di tempo inferiore a quello proposto.

“Immortals” è forse il pezzo più diretto del lotto, dove i 2 chitarristi, Chris Polin e Keith Harris (che combinazione!) si mettono in buona luce, armonizzando riffs e sciorinando assolo di buona fattura.

“The Legend Carries On” è altamente esplicativa sul problema dominante dell’album.
Dopo oltre 2 minuti in cui non si capisce dove la band voglia andare a parare, si arriva ormai estenuati ad uno splendido refrain che stanchi e confusi non riusciamo ad apprezzare come meriterebbe. Otto minuti e mezzo di brano. Una follia.

Citiamo le più brevi, immediate e per questo maggiormente fruibili “Wasted lives” e “Stand up and Fight”, la bella “The Chosen One”, molto simile nei fraseggi chitarristici ad una “The Road To Hell” della premiata ditta Dickinson-Smith.

Spendiamo le ultime parole per il singer e la produzione.
“Harv” manca di personalità e carisma, ma non possiamo certamente asserire che sia un pessimo cantante, anzi, con un estensione vocale davvero invidiabile, il nostro sosia di Steve Harris (ebbene si…è destino allora!) ci fa cantare e godere di vocalizzi davvero ottimi. Arrivando a somigliare nelle tonalità più cupe a Bayley ed in quelle high pitch a Tate, Harbinson si dimostra a suo agio in ogni brano ed in ogni acuto, che trasuda sincera ammirazione per i suoi idoli ed insegnanti. La produzione è di molto migliorata rispetto all’esordio, ma ancora non valorizza il sound della band, la quale necessiterebbe di sonorità maggiormente “open” e potenti.

Trovando risibili le critiche mosse da molti, i quali asseriscono che il gruppo ha un sound datato (ovvio! È voluto e ricercato!) possiamo concludere in un modo alquanto originale:

Indicazioni : nostalgia e malinconia di vecchie sonorità.
Posologia: da assumere a piccole dosi.
Controindicazioni: cefalea e spossatezza in caso di uso prolungato.
 
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Tracklist:
 
01. Death Dealer
02. Secret Gateway
03. The Memory Never Dies
04. Immortals
05. The Legend Carries On
06. Labyrinth
07. Wasted Lives
08. Stand Up And Fight
09. The Chosen One
10. World Of Sorrow
11. The Greatest Sacrifice
12. Final Journey
 
Line Up:
 
Chris Polin – Guitar
Keith Harris – Guitar
John “Harv” Harbinson – Lead Vocals
Graham Mcnulty – Bass
Davy Bates – Drums