Recensione: Death – Pierce Me

Di Francesco Brocca - 4 Agosto 2015 - 9:30
Death – Pierce Me
Band: Silencer
Etichetta:
Genere: Black 
Anno: 2001
Nazione:
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68

“…I am the macabre enslaver…”

Oggigiorno, il depressive black metal si è sviluppato a dismisura, complice la formazione di numerosissime one-man band nel panorama underground. Come è naturale e lecito, tutti i lavori recenti si ispirano fortemente a dei pilastri che hanno gettato le basi del genere, pur, il più delle volte, snaturandone il significato e l’essenza.
Uno di questi punti di riferimento, se non IL punto di riferimento per eccellenza del depressive black, è senza dubbio “Death – Pierce Me”, un lavoro che sembra quasi essere il successore di “Dictius Te Necare dei Bethlehem”, in tutta la sua follia.
Un album, a mio parere, estremamente sopravvalutato e che deve molta della sua fama al nero alone che lo circonda, alone enfatizzato dalle innumerevoli leggende metropolitane che circondano l’ex frontman e cantante Nattramn.
Chi era costui? Stando alle parole del session drummer Steve Wolz, sembrerebbe fosse un tipo amichevole e con un buon senso dell’umorismo, che ha sfruttato i rumor sui Silencer per crearsi un mito. Nulla a che vedere, dunque, con le tante leggende metropolitane che lo vedono protagonista: l’auto-mutilazione delle mani, il trapianto di zampe, l’acido sulla faccia, la fuga dal manicomio e il tentato omicidio di due bambine. Lasciamo quindi da parte tutte queste storie, del tutto prive di fondamento, e andiamo a giudicare questo album in modo oggettivo.

Formatisi nel 1996, gli svedesi Silencer erano composti dal già citato Nattramn, dal poli-strumentista Leere e dal session drummer Steve Wolz. Dopo una demo limitata a quaranta copie, registrata nel ’98 (utilizzata come bonus track in questa edizione), nel 2001 viene pubblicato “Death – Pierce Me”, un concentrato di tre quarti d’ora (o un’ora se si conta la bonus track) di difficile ascolto, apprezzabile solo da chi è in grado di reggerlo psicologicamente.
E’ un enigma, una spirale di emozioni che è necessario analizzare track-by-track, per riuscire a coglierne gli aspetti positivi (e negativi).
Prima della recensione delle tracce, però, è necessario spendere alcune parole anche riguardo alla presentazione del disco e al modo in cui si presenta la confezione. L’artwork, prendendo in considerazione l’intero booklet, è un po’ la summa di quello che ci aspetta a livello musicale e visivo. Un corpo quasi bionico guarda molteplici sue immagini riflesse all’interno di uno specchio, in un’atmosfera grigia e oscura. Sfogliando il libretto, poi, ritroviamo i testi molto particolari di Nattramn e Leere, i ringraziamenti alla lista di psicofarmaci, le foto enigmatiche e confuse dei componenti della band, in cui, volutamente, non si capisce nulla. I testi non sono molto maturi, ma allo stesso non risultano banali, come dimostrano le strofe enigmatiche di “Taklamakan”.

A livello musicale, la produzione è molto fredda e secca, nulla di speciale, così come la struttura delle canzoni in sè. Power di quinta per la ritmica, chitarra solista leggermente dissonante e malinconica, basso che serve a coprire i buchi e drumming con un eccellente lavoro di doppia cassa.
La composizione delle canzoni, sebbene rispecchi il black metal classico di stampo norvegese, riesce a risultare abbastanza originale, alternando sfuriate velocissime e molto ripetitive, a break lenti e acustici con tastiere d’atmosfera.
La voce di Nattramn, invece, è l’elemento più strano dell’intero lavoro in studio, essendo caratterizzata principalmente da scream disumani che superano le capacità delle corde vocali, saggiamente tenuti a un volume non troppo alto dal mixaggio finale. A un falsetto cattivo si aggiungono quindi momenti di scream canonico, sprazzi di colpi di tosse e versi particolari lontanamente riconducibili a conati di vomito e rantoli. Scelte particolari e, forse, discutibili che potrebbero portare molti a non apprezzare molto il cantato di “Death – Pierce Me”.

Il platter inizia con la title-track, caratterizzata da un bellissimo intro di quasi due minuti. Un arpeggio di chitarra vagamente classicheggiante scandito da pattern di batteria azzeccatissimi viene spezzato da uno scream raggelante che, la prima volta che l’ho ascoltato, mi ha fatto letteralmente saltare dalla sedia. Qui i riff sono ripetuti allo sfinimento, interrotti solo da un break centrale interamente suonato al pianoforte e spezzato nuovamente da uno scream da jumpscare. Nel complesso, un buon pezzo, se si riesce a cogliere la sua atmosfera grigia e cupa.
“Sterile Nails and Thunderbowels” è il secondo brano, nonché il migliore e il più “orecchiabile” di tutto il disco. Qui ci troviamo alle prese con un black doom cadenzato, introdotto da un riff d’atmosfera molto malinconico e melodico. I break acustici sono i protagonisti del pezzo, accompagnati dal cantato di Nattramn che rispetto alla traccia precedente risulta molto più sopportabile e “canonico”, anche se pure si cimenta in urla indemoniate, sussurri e colpi di tosse. Qui il frontman ci da anche prova del suo humour nero: verso la fine della canzone, quando in una voce goffa dice il titolo del pezzo, seguito da un “Oh Yeah!” che strappa un sorriso all’ascoltatore. Traccia eccellente.
Un intro di basso e batteria molto groovy ci introduce a “Taklamakan”, il brano migliore del disco, secondo solo al precedente. Le chitarre evocano un’atmosfera ventosa e siberiana, una tormenta di neve impazzita che fatica a smettere senza lasciarsi dietro caos e vittime. Dopo la furia cieca della prima metà, la traccia prende una svolta brusca e improvvisa, rallentando a ritmi al limite del doom metal.
Un attimo di respiro per arrivare a “The Slow Kill in the Cold”, che, a mio avviso, risulta essere la canzone peggiore dell’album, forse per l’eccessiva somiglianza con l’opener, forse per la ripetitività dei riff, risultando in definitiva mancante di incisività.
Sulla stessa scia prosegue “I Shall Lead, You Shall Follow”, che però è caratterizzata da un sound più massiccio e tradizionale e da un testo battagliero che ricorda la Seconda Guerra Mondiale.
“Feeble are You – Sons of Sion” è una strumentale di pianoforte, che lentamente conclude questo trip mentale nei meandri più oscuri della mente umana.
La bonus track, una demo dell’opener, non presenta grandi cambiamenti dalla versione finale. Forse contribuisce a concludere in maniera negativa questo album, in quanto, arrivati a questo punto, la ripetitività dei pezzi diventa davvero asfissiante.

Nel complesso è un disco avvolto nel mistero, che si ama o si odia. Inizialmente l’ho odiato, ma pian piano che lo si ascolta ci si abitua al sound dei tre svedesi e lo si rivaluta. Niente di veramente eccezionale nell’ambito del mero depressive, in quanto ci sono lavori che non appartengono al genere, ma che riescono a mettere molta più tristezza addosso.
Un disco, in definitiva, molto sopravvalutato, soprattutto per l’aura che gli si è venuta a creare attorno col passare del tempo per via delle leggende metropolitane che Nattramm stesso è stato capace di alimentare. Rimane comunque una pietra miliare, un fulmine a ciel sereno, uno di quegli album considerati (a torto o a ragione) imprescindibili nella collezione di ogni blackster.

“…invisible but invincible…”

Francesco “Manthas” Brocca

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