Recensione: Dedicated To Chaos

Di Mauro Gelsomini - 7 Luglio 2011 - 0:00
Dedicated To Chaos
Band: Queensrÿche
Etichetta:
Genere:
Anno: 2011
Nazione:
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40

“Questo è il disco più focalizzato sulla ritmica che abbiamo mai fatto.”

Le parole di Geoff Tate che anticipavano il nuovo “Dedicated To Chaos” risuonano amare oggi, dopo il nostro ascolto dell’album. Se da una parte si può convenire con il singer circa la particolare attenzione posta su basso e batteria, a tal punto da rivedere i fantasmi di quel Tribe che tanto aveva fatto discutere, dall’altra dobbiamo necessariamente e definitivamente considerare la band di Seattle arrivata a un capolinea compositivo senza speranza di ritorno. La tendenza a privilegiare la ritmica alla melodia, a sprazzi echeggiante verso un nome “enorme” come quello dei Rush, si deve realisticamente accontentare di paragoni ben più degradanti, quali l’alternative e il rap (metal? Ma anche no), per una band che della melodia aveva fatto uno dei suoi punti di forza.

Intendiamoci subito: il dodicesimo album dei ‘Rÿche, ancora una volta prodotto da Kelly Gray, è un gioiello dal punto di vista del sound, forse non per maniaci del vinile, viste le avanzate tecnologie adottate… Tanto che per apprezzarlo a pieno, ne consigliamo l’ascolto con cuffie Hi-Fi. Tuttavia questo non può essere sufficiente a giustificare una tracklist decisamente lunga (sedici brani) e molto poco ispirata, principalmente nell’impatto armonico e melodico, a cui sono preferiti l’arrangiamento e la base ritmica, talvolta in maniera così insistentemente farcita di elettronica da insinuare nell’ignaro ascoltatore il dubbio che i suoi beniamini si siano dati alla “dance” (parola che ha usato lo stesso batterista, Scott Rockenfield, del resto).

Lungi da noi voler banalizzare in un genere (la dance) le motivazioni del flop, anche perché siamo convinti che sia possibile sperimentare con successo una qualche contaminazione del nostro amato Metal. Quello che purtroppo è successo, nella fattispecie, è una totale sottomissione dell’intero processo compositivo nei confronti della ritmica: a farne le spese sono principalmente la melodia, l’interpretazione, l’atmosfera, del tutto a disagio se obbligati in una struttura semplificata e troppo scomoda per consentire la libertà melodica che gradiremmo da un album progressive. Lo stesso Tate è costretto a restare nei ranghi e ad adattarsi al piattume solo saltuariamente interrotto con virtuosismi forzati, quasi fossero nostalgiche valvole di sfogo (o forse, stando alle sue dichiarazioni, dovremmo considerarle poco più che “bravate” interpretative?) nei confronti di un ammodernamento che fa quasi tenerezza: ci riferiamo in particolare ai neologismi di cui i testi sono infarciti (“world wide web”, “youtube”, “apps”) nonché alle storpiature tipicamente internettiane dei titoli dei brani.

Per non gettare tutto alle ortiche, con grande sforzo riusciamo a salvare alcuni passaggi, pressoché riconducibili al dinamismo à la Rush che sporadicamente (casualmente?) viene fuori, come nel caso dell’opener “Get Started” – che aveva davvero fatto ben sperare con il suo flavour hard rock – o dell’ottantiana “Higher“, che non riesce purtroppo a decollare nonostante i tentativi di aperture e crescendo, e con un intermezzo di sax addirittura risibile. Altri due brani meritano menzione favorevole: “Broken” è sorretta da un raffinatissimo impianto strumentale, gli arrangiamenti sono di classe eccelsa, il sax contribuisce stavolta in maniera positiva e l’interpretazione di Tate, a tratti recitata, sofferta, è la ciliegina sulla torta; infine “Drive“, che torna ancora su ritmiche Rush, è un brano ficcante, ben riuscito.

Tutto il resto è noia, tanto per parafrasare… L’alternative fa capolino nella sincopata “Hot Spot Junkie“, che diviene presto una cantilena nonostante i tentativi corali – comunque fuori luogo – di dare colore, come pure nella successiva “Got It Bad“, ancora strascicata e poco cantabile.
Si prosegue con qualcosa di più arioso, come “Retail Therapy“, ma è giusto una boccata d’aria in un limbo fatto di reminiscenze: i tribali anni ’80 di “I Believe” – siamo alla disco music; i controcanti sul refrain di “Luvnu” (Loving You, per i neofiti della rete) presuntuosi di spezzare l’alternative con richiami quasi “Operation: Mindcrime“; l’inascoltabile rap di “Wot We Do“; “Big Noize“, naturale – soporifera – conclusione di un platter che aveva già raschiato il fondo del barile con “I Take You“, e il cui torpore era stato piacevolmente disturbato dal cambio repentino di tempo sullo sbarazzino finale di “The Lie“…

La conclusione è scontata, e non sarebbe potuto essere altrimenti. Supponiamo che nemmeno chi apprezza il “nuovo corso” dei Queensrÿche griderà al capolavoro per “Dedicated To Chaos“, e speriamo che il trend negativo possa far rinsavire i nostri, prima o poi. Per il momento le speranze restano piuttosto vane, visto che sull’onda dell’entusiasmo per questo album, la band ha già avviato il songwriting per il successivo. Vorremmo dirvi che di peggio non si può fare, ma purtroppo, rabbrividiamo, non è così…

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Tracklist:

  1. Get Started
  2. Hot Spot Junkie
  3. Got It Bad
  4. Around The World
  5. Higher
  6. Retail Therapy
  7. At The Edge
  8. Broken
  9. Hard Times
  10. Drive
  11. I Believe
  12. Luvnu
  13. Wot We Do
  14. I Take You
  15. The Lie
  16. Big Noize

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